The Brutalist tra autenticità, conflitto e richiesta di fondamento

di Enrico Palma ed Enrico Carmelo Tomasello

La filosofia di Schopenhauer ha certamente molti limiti ma quando nella seconda parte della sua opera più celebre discute delle forme di liberazione dal dolore universale come affrancamento dalla volontà offre indubbiamente delle potenti strategie per sopravvivere, intendendole come il tentativo sensato di continuare a stare in questo mondo nonostante esso sia tale assurdo di sofferenza e di oscurità. Perché Schopenhauer? Perché la richiesta che questo film fa allo spettatore contemporaneo, subissato, persino imprigionato, dalla temporalità dello scadimento facile e immediato dei contenuti veicolati nelle varie piattaforme social, è esorbitante, addirittura offensiva. Le quasi quattro ore di durata impongono infatti uno sforzo importante. L’idea schopenhaueriana dell’arte come liberazione dal dolore, benché solo momentanea e circoscritta, potrebbe quindi suggerire l’atteggiamento giusto per la visione di questo film: la sospensione della vita per il godimento, ormai abbastanza insolito, di un’opera d’arte già temporalmente impegnativa, in cui, sostanzialmente, si assiste a una storia coinvolgente ed emotivamente conturbante di un uomo che patisce e cerca di liberarsi da questo dolore.

The Brutalist è innanzitutto un invito a ritornare all’essenza delle cose. Nonostante la durata della pellicola (con i suoi 215 minuti) possa sembrare andare, come detto, in una direzione opposta, troviamo diverse ragioni a sostegno di questa tesi a partire dai modi in cui si esprime, ossia attraverso un ventaglio di modalità rappresentative che rinforzano lo stesso messaggio nel corso di tutto il film. Basti pensare alle scelte tecniche, come quella cinematografica di girare il film in Vista Vision o quella delle musiche e della colonna sonora realizzate usando strumenti musicali, tecniche e attrezzature per la registrazione ormai in disuso da decenni.

A ragione alcuni critici, inoltre, si sono soffermati sul fatto che questo non è un film sull’architettura, perché di fatto non lo è. Sin dalle prima scene di The Brutalist è evidente come il brutalismo che ritroviamo nel titolo della pellicola non sia solo un movimento artistico e architettonico ma lo sfondo stilistico nel quale si muove l’opera. Articolato in due capitoli, intitolati rispettivamente The Enigma of Arrival e The Hard Core of Beauty, il film è per il regista Brady Corbet il tentativo di indagare una serie di temi irrisolti. Dal rapporto tra l’autenticità artistica e le manipolazioni del potere al complesso d’inferiorità culturale statunitense nei confronti del vecchio continente, dalle vicende identitarie dell’architetto László Tóth verso una riflessione su come si possa rigenerare l’ispirazione artistica nonostante le frustrazioni personali e le tragedie storiche che ci coinvolgono consapevolmente o inconsapevolmente. Certamente può essere intravista l’epopea di un reietto che ritrova una vita dignitosa e un motivo per vivere nell’applicazione della sua arte, nell’esercizio di ciò che gli dovrebbe riuscire meglio, e cioè progettare dei luoghi e degli spazi attribuendo un senso di bellezza, vendicandosi sottilmente (rifacendosi altrove una nuova vita) dei persecutori e di coloro che l’hanno reso un randagio politico. Si può sostenere, però, che il suo sensus plenior vada ricercato nel concetto di fondamento, di quel Grund mai definitivo e dunque sempre provvisorio che l’umano tenta di costruire per trattenersi nella vita.

La poetica di László Tóth, l’architetto esiliato dal suo fondamento, è di progettare edifici che durino nel tempo, che lo oltrepassino trascendendo le infamie e le insopportabili lacerazioni del presente storico politicamente così depresso e degenerato. Da questo, infatti, l’esigenza della semplicità, di una chiarità che trapassi la sofferenza dissolvendola nella forma, nel biancore purissimo di un altare contrassegnato da un crocifisso di luce, segno inconfutabile di una redenzione ardentemente voluta e da imprimere sul dolore dello spazio e del tempo; a cui non può che seguire l’uso del cemento, forte, austero, superiore al dolore, una terra più resistente della terra, il materiale della rivincita sulla caducità e sulla debolezza della carne.

László è un uomo che soffre: strappato dalla sua arte e dalla sua patria dalla follia nazionalsocialista, ripara in un’America fatta di pregiudizio e riottosità, nella quale non riuscirà mai a integrarsi del tutto. Conosce Harrison, un milionario incallito, burbero e sostanzialmente ignorante, che per attribuirsi un tono e per perdonare la sua rabbia richiama László, scacciato in malo modo dalla biblioteca che i figli gli avevano commissionato come regalo. Ma è una biblioteca falsa, il cui unico merito è quello di essere stata progettata nella luce redentiva della bellezza, poiché nessun libro è stato mai letto davvero, chiara attestazione di una povertà intellettuale che si tramuta di riflesso in un’indigenza emotiva, la quale si mostra nei momenti nevralgici del film: la rabbiosa frustrazione per l’esplosione del treno-merci che trasportava i materiali verso il cantiere e soprattutto la violenza ai danni di Erszébet, intenta a smascherare lo stupro di Harrison sul marito schiaffandoglielo in presenza dei suoi familiari e di altri potenti amici. Vergogna a cui, verosimilmente, Harrison reagisce con il suicidio, trasformando il monumento per la madre defunta nel suo mausoleo.

Sebbene il film si concentri principalmente sulla vita del protagonista, un architetto che lotta per affermarsi in un contesto che sembra sempre metterlo alla prova, emergono in modo chiaro le dinamiche di invidia e competizione tra le due sponde dell’Atlantico. Questa frustrazione nei confronti del suo status negli Stati Uniti è evidente, specialmente nella scena in cui sentiamo affermare: «In Europa, il design è visto come una forma di arte. Qui, è solo un prodotto da vendere».Questa frase è la sintesi perfetta del sentimento di un’America che non riesce a liberarsi della sua natura utilitaristica e consumistica, contro un’Europa che viene invece percepita come un luogo dove l’arte e l’architettura sono svincolate dalla dimensione produttiva ed elevate a un livello di sacralità che le rende non più produttrici ma creatrici. Probabilmente risiede in questa distanza, che separa i due modi di intendere la vita, la differenza sostanziale tra la dimensione profana della “realizzazione al fine di” e quella sacra della “creazione per se stessa”. L’architettura brutalista, non potendo essere concettualizzata diversamente, diventa la metafora di questa tensione: di uno stile che, pur essendo nato in Europa, è stato adottato negli Stati Uniti con un misto di ammirazione e scetticismo, spesso visto come una sfida all’estetica tradizionale americana. Il brutalismo architettonico, con la sua durezza e la sua essenzialità, rappresenta l’aspirazione degli Stati Uniti a sfidare le convenzioni europee e il fallimento nel riuscire a replicare la stessa autenticità che sembra caratterizzare l’Europa.

László, infatti, viene ripudiato con una macchinazione meschina dalla moglie americana del cugino Attila, non viene mai riconosciuto dalla comunità di Doylestown, diviene vittima della mendace umanità di Harrison, il quale rappresenta il volto più sincero della ferocia degli Stati Uniti, della loro inferiorità culturale e intellettuale rispetto a un’Europa ferita e sottomessa, del loro inguaribile bigottismo. Se hanno ragione alcuni interpreti di Kafkanel riconoscere nella sua opera la tragedia dell’ebreo errante e del suo mancato inserimento in un mondo altro che non sia la propria patria, si può esprimere la tonalità esistenziale di László con una battuta apparentemente di passaggio del K. del Castello: «A volte questo mi deprime profondamente, allora mi sento come se avessi perduto tutto, allora ho l’impressione di essere appena arrivato al villaggio, ma non pieno di speranze come è in realtà avvenuto, bensì consapevole di non potermi aspettare altro che delusioni»[1].

Questo film diviene dunque una metafora dolente e insieme magnifica del dolore di non avere un fondamento e dello sforzo continuo di costruirne uno in un altro luogo e in un altro tempo, scommettendo interamente se stessi e la propria identità. Non è solo la storia di un ebreo esule in cerca di una casa, di una condizione che gli renda accettabile la vita: è, in realtà, la condition humaine, che nel fondamento conquistato agogna a ottenere la redenzione. Il monumento Van Buren è questo tentativo, è la realizzazione plastica di tale aspirazione, a cui, difatti, Lászlo dedica tutto se stesso: la costruzione di un fondamento da parte di qualcuno che proviene da un altrove, in cui quella comunità possa trovare un punto fermo per ottenere solidità e rinserrarsi nella preghiera.

The Brutalist è dunque questa tensione tra autenticità e manipolazione. Poiché l’arte, nella sua forma più pura, è intesa come una manifestazione dell’io autentico dell’artista, un’espressione di libertà e di spontaneità. Tuttavia, l’altra faccia del film ci mostra come l’artista, nel momento in cui entra in contatto con il potere, sia costretto a piegarsi a una serie di compromessi. L’arte come campo di battaglia e luogo di rinascita, diventa il simbolo di questa guerra interiore, una guerra tra il desiderio di verità e la necessità di sopravvivenza, tra l’individualità dell’artista e le strutture che cercano di omologarla.

C’è il sollievo delle droghe, della compagnia sessuale occasionale, della perdizione con cui ci si sgrava per qualche tempo dal peso di se stessi, della speranza poi realizzata di ricongiungersi con la propria moglie. Ma il tutto all’insegna del dramma del disconoscimento totale, di una lotta impari con un mondo sordo e ignorante, di una diversità culturale all’insegna di un’incomunicabilità di fondo tra realtà incomponibili, quali quelle europea e statunitense. Nonostante i vari ostacoli, che ne avevano seriamente compromesso e posto a rischio la riuscita, il monumento viene ultimato e il lavoro di Lászlo riconosciuto alla Biennale di architettura di Venezia del 1980, insieme al resto dell’impegno artistico che ne è seguito: la consacrazione finale, in verità, della relazione commovente con la moglie e della reciproca dedizione e fedeltà che si sono tributati l’un l’altra. Il cemento della vita di Lászlo sono l’amore per la moglie e l’idea di redimere lo spazio attraverso un monumento che rivendichi il tempo patito, erigendo edifici di potente semplicità in cui può risplendere il messaggio della luce vindice sul dolore.

In apertura e in chiusura del film troviamo due frasi che gli conferiscono una struttura circolare. La prima appartiene a Goethe, ed introduce così il film: «Nessuno è più schiavo di chi ritiene di essere libero», indirizzando in tal modo sin dalle prime battute il registro emotivo con il quale veniamo introdotti al corso degli eventi. Mentre per l’ultima battuta del film saranno le parole pronunciate dalla nipote durante il discorso d’inaugurazione alla Biennale: «Non conta il viaggio ma la destinazione», a riprendere di fatto il senso dell’intera vicenda e ponendo il cuore dell’attenzione sul motivo che spinge il protagonista ad agire.

The Brutalist è infine un invito alla riflessione sul concetto d’identità. L’artista, in un certo senso, è costretto a rinunciare alla propria identità per aderire a una versione impersonale di sé. Questa forma di alienazione si riflette sul cambiamento del protagonista, il quale sembra perdere gradualmente il controllo sul proprio lavoro e sulla propria vita. Attualizzando questa prospettiva nella nostra realtà, otterremo un mondo governato dalla performance e dalla cultura dell’apparenza, in cui l’individuo (di cui l’artista non rappresenta un’eccezione) si ritrova spesso costretto ad accettare diversi compromessi proprio per rispondere alle esigenze di un sistema depauperato ed annichilito dal consumismo. In estrema sintesi, il conflitto interiore del protagonista costituisce una dicotomia tra identità e autenticità, ponendo domande fondamentali sulla libertà dell’artista e sul modo in cui la società ci definisce e sfrutta.

Qual è dunque il messaggio ultimo di The Brutalist? Quali sono le motivazioni che potrebbero spingerci a una riflessione originale sul tema? Perché quest’opera cinematografica si presta ad una profonda riflessione filosofica su una varietà di temi che riguardano ognuno di noi?

Probabilmente una risposta esaustiva la ritroviamo nelle parole dell’attore cinquantunenne Adrien Brody, che, durante la cerimonia degli Oscar 2025, così si è epsresso sul palco del Dolby Theatre di Los Angeles: «Sono qui ancora una volta per rappresentare i traumi e le ripercussioni della guerra, dell’oppressione sistematica, dell’antisemitismo, del razzismo. Prego per un mondo più sano, più felice e più inclusivo. E credo che se il passato può insegnarci qualcosa, deve essere un promemoria per non lasciare che l’odio rimanga incontrollato. Deve insegnarci a non ripetere gli errori, dobbiamo lottare per ciò che è giusto, rispettiamoci gli uni con gli altri».

In conclusione, The Brutalist non è solo la storia delle vicissitudini e dei conflitti interiori di un artista, ma uno spaccato della nostra condizione. La condizione umana in cui il ruolo e la figura dell’artista (nel caso specifico di un architetto) possono essere la chiave di volta che sostiene non solo una riflessione sul passato, dunque su chi siamo stati, ma anche sul futuro, proprio perché chiamati a ridisegnare il mondo che sarà e la realtà che vorremmo abitare o che potremmo essere.

The Brutalist

di Brady Corbet

Stati Uniti d’America, 2024

Con Adrien Brody (László Tóth), Felicity Jones (Erzébet Tóth), Guy Pearce (Harrison Lee Van Buren), Joe Alwyn (Harry Lee Van Buren), Raffey Cassidy (Zsófia), Stacy Martin (Maggue Lee Van Buren), Isaach de Bankolé (Gordon), Alessandro Nivola (Attila).


[1] F. Kafka, Il Castello (Das Schloß, 1926), introd. di S. Quinzio, trad. e cura di U. Gandini, Feltrinelli, Milano 2012, p. 185.

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