È il nascere che non ci voleva

Recensione a:

S. Dierna

È il nascere che non ci voleva. Storia e teoria dell’antinatalismo

Mimesis

Milano-Udine 2025

Pagine 358

€28,00

di Enrico Palma

Come ricorda giustamente l’autrice di questo volume, la domanda leibniziana sul perché c’è l’essere e non il nulla è quella che motiva ogni tentativo teoretico che si rispetti, se vuole dire di se stesso di essere radicale, profondo e originario. Tale domanda, se mantenuta sempre accesa, può essere utile nell’interpretazione di uno dei suoi possibili domini, ambiti d’applicazione metafisici, tant’è che, attagliandola formalmente alla vita, ci si potrebbe chiedere: ma una volta che c’è l’essere, cosa farne? Kierkegaard diceva della morte che fosse il primo dei pensatori, e uno dei suoi interpreti più originali e acuti, Heidegger, in Essere e tempo ha posto la morte come il pensiero più vicino all’autenticità esistenziale, anzi, quel pensiero che pone l’esserci nella sua dimensione più propria, la finitudine, la colpa e il bisogno di redenzione. Ma la morte è l’esito del nulla che la vita ha in sé, inscritto nella sua essenza. Sicché la morte non è essere, ma la sua privazione. E allora la domanda, nella prospettiva dell’Antinatalismo, va riformulata nel modo che segue: è opportuno che l’essere ci sia, che insomma la vita sia? È l’essere, una volta che c’è, sempre preferibile al nulla, auspicando con ciò una sua prosecuzione?

Un simile interrogativo, posto nei seguenti termini, presuppone dunque ciò che l’autrice si propone di fare, dispiegando con ottimi argomenti e con una lucidissima e matura convinzione una scansione dell’essere, una diagnosi del suo come, sino a individuare la sua caratteristica più profonda. Che cos’è dunque l’essere, che cos’è la vita, e perché, quindi, si dovrebbe preferire al nulla? La prima affermazione dal notevole peso specifico sul piano teoretico è l’impegno ontologico che Dierna si assume e che porta avanti lungo il suo argomentare, e che è l’idea di fondo dell’Antinatalismo come filosofia dell’essere, e dunque in quanto metafisica, e come filosofia della prassi, in quanto etica esistenziale. Riguardo alla vita umana, questa particolare manifestazione dell’essere, vale allora il postulato di Dierna, difficilmente smentibile e aggirabile: «La peculiarità di questi enti fragili e parziali è il dolore» (p. 17). Il dolore è l’esperienza ontologica fondamentale della vita, è ciò che l’esistenza è, il toro rabbioso mai domo rispetto a cui il compito del pensiero è di contenerne la furia inforcandone le corna. Questa affermazione è dunque punto di origine e di arrivo, rispettivamente di un’ontologia dell’esistenza umana e di una fenomenologia della vita, giacché, come in un percorso a ritroso, si potrebbe riavvolgere il libro dalla fine per poi giungere, legittimati, al suo inizio, coincidente con tale formula dal valore di un teorema. Tutta la prospettiva di redenzione inaugurata da questa frase corrisponde al compito che ogni ente consapevole di sé ha nei confronti del dolore che è e che prova, il cui esito, oltre all’impegno ontologico sulla sofferenza, è l’altro impegno a non procreare, a evitare che altro dolore si propaghi nel mondo.

L’analisi di Dierna delle forme antiche, moderne e contemporanee di Antinatalismo permette di vedere e di riconoscere in modo lampante la sempiterna attualità di questo problema, oltre le epoche, le prospettive, le metodologie e gli autori che le hanno declinate, «perché ciò che permane tuttavia è l’invarianza dell’infelicità umana che si trasmette generazione dopo generazione» (p. 20). Sin da Anassimandro, come ricorda Dierna, ogni ente, e più di altri l’esistente umano, è una pena da dover ripianare con la sua estinzione, un debito da rifondare con la restituzione di sé al tutto da cui si è prelevata la materia per essere. «Nell’umano soltanto l’accadere del tempo diventa inquietudine e l’esserci e il non-esserci-più sono chiamati nascere e morire. Il nascere si compie sempre a spese di qualcun altro e il morire si realizza sempre a vantaggio di qualcos’altro. Questa omeostasi cosmica costituisce un’armonia tragica ma garantisce l’equilibrio dell’intero, il divenire dell’essere, il rinnovarsi della materia» (p. 22). Sarebbe un’armonia splendente e magnifica se non ci fossero la tristezza o un profondo senso di negatività legato alla consapevolezza della fine inevitabile delle cose, l’abitare in una zolla d’impermanenza destinata a essere sommersa dalla marea invincibile dell’intero. E questo è la tragedia profonda del vivere, lo sfregio originario che è la nascita, il sapere della fine e l’esistere nel limite come equivoco di dolore: un destino che è inscritto nella metafisica del tutto a cui il vivente, come ente tra gli enti, non può sottrarsi, se non, ricorda l’Antinatalismo, a condizione di arrestare tale dinamica impedendo un nuovo inizio, e quindi un nuovo dolore e una nuova tragedia, che è il trionfo della materia cosmica senza una coscienza che lo colga ma profondo scoramento per chi invece ne vive.

«Eccezionale o aneddotica la presenza della nostra specie rientra nel meccanismo diveniente, flussico e temporale della materia; obbedisce al principio di Anassimandro; subirà la pena della fine. Non c’è nessun dio all’inizio e alla fine, non esiste il male nella natura ma la perfezione del cosmo, la sua regolarità e il suo ordine; il suo continuo rinnovo». A cui consegue che «una metafisica immanente, materialistica, ontologica e antropodecentrica è il sapere necessario dal quale deve partire qualsiasi riflessione che si vuole sforzare di comprendere l’essente. Essa si allontana dall’etica valoriale e da qualsiasi altra prospettiva eterodiretta, abbandona qualsiasi dogma e credo, soprattutto la metafisica riconosce l’importanza della fisica, della chimica, della biologia e proprio perché non se ne separa, non accantona i loro contenuti» (p. 29). È dunque in gioco il giusto posizionamento dell’umano nel cosmo, che può ottenersi soltanto a condizione di una profonda conoscenza di carattere metafisico, che metta le cose nel loro esatto ordine e livello. È solo con questa premessa, scrive l’autrice, che si può tentare una riflessione che abbia realmente l’umano al centro, ma non nel senso dell’antropocentrismo, che sarebbe un fatale errore sia teorico sia etico, bensì della filantropia, cioè di una prospettiva che abbia a cuore il destino di dolore in cui l’umano si imbatte con il vivere, con l’obiettivo di risparmiargli questa infausta sorte.

In questa direzione, uno dei pregi indiscussi di questo studio, anche non condividendone le premesse e gli esiti, è la descrizione esatta e partecipe, che in molti casi tocca punti di alto lirismo, di che cosa sia l’esistenza umana nel mondo. Partendo infatti dall’asimmetria di fondo tra certezza del dolore e probabilità della gioia, Dierna sigla: «Appare insomma evidente che la vita umana sia una trappola esistenziale, ironicamente una truffa, un tradimento, una presenza che non si spiega come qualcuno possa volere concedere a qualcun altro. Una trappola nella quale veniamo gettati senza la nostra volontà; durante la quale soffriamo, sopportando fardelli che non abbiamo mai chiesto di ricevere e alcuni dei quali al di sopra delle nostre effettive possibilità di affrontarli; e dalla quale saremo alla fine liberati, obliati per il resto dell’eternità» (p. 38). L’evidenza di cui parla Dierna affonda in molte ragioni, e se si sbaglia nel ritenere che una sola, piccola, sparuta gioia può apparentemente giustificare il dolore intrinseco all’esistenza e alla procreazione, sulla scia dell’autrice si può rimettere la questione, oltre che naturalmente alla sua ineludibile oggettività, sotto il profilo della sensibilità verso il dolore stesso e alla sua intensità, nella convinzione, cioè, che un dolore assoluto sia più gravoso e di maggiore entità di una gioia assoluta, che, in altre parole, la sofferenza sia più a caro prezzo. È difficilmente smentibile il fatto che l’esistenza accade al modo in cui Dierna la descrive, cogliendo e rielaborando la lezione di altri pensatori, de Giraud su tutti, sicché nell’Antinatalismo converge, insieme a una sapienza teoretica, una profonda saggezza ontico-mondana della realtà dell’essere-alla-vita, la quale è ben lontana dall’essere un evento di grazia, ma è di sciagura, una condanna intollerabile in un inferno che si sconta vita natural durante. Riprendendo Cioran: «Al paradiso corrisponde la beatitudine del niente di prima della nascita, della luce, come si è detto, che irradia se stessa senza rifrangersi su altro» (p. 45). Una tenebra invincibile in cui si sta più caldi e più sicuri, proprio perché non esistono temperatura e pericoli di sorta.

Il libro, proponendo un Profilo storico dell’antinatalismo, affronta con dottrina le tracce e le attestazioni di quello che l’autrice chiama Proto-Antinatalismo, una concezione cioè sul nascere che non incoraggia apertamente la negazione della procreazione ma sottolinea con forza l’inopportunità, la disgrazia del venire al mondo, di cui esempio massimo, pur con le dovute distinzioni, è il doppio canto tanto dolente quanto saggio dell’Edipo a Colono e del Qohélet. In ogni caso, secondo Dierna, è nei Greci che va ritrovata una maggiore pregnanza del tema, poiché per essi «la riflessione sul nascere rimane metafisica. Essi non la indagano nello strazio dell’avvenire ma nella quiete dell’intero; tale distanza rende già la conoscenza meno disperata e più consapevole» (p. 83). In altre parole, un ulteriore invito a un pensiero che rifiuti categoricamente il pregiudizio antropocentrico e inserisca l’umano, come ente tra gli enti, nel gioco infermabile di Identità e Differenza che informa la metafisica dell’Intero. È per questa ragione che, dal punto di vista strettamente metafisico, Dierna definisce la propria prospettiva ontocentrica, che metta cioè al centro l’essere e non una sua particolare manifestazione, tra l’altro peggiorata e macchiata irrimediabilmente dall’essere comparsa in una forma consapevole di sé. «Ma in modo metafisico, teoretico e ontocentrico anche la nascita è un principio ontologico necessario. Non è necessario che a nascere sia un ente piuttosto che un altro, ma è necessario l’ente perché l’essere si riveli. Il nascere rappresenta dunque soltanto un momento della ζωή nel divenire incessante della φύσις» (p. 85). E quindi, si può desumere, non è necessario, non è sacro, che l’ente chiamato umano debba nascere per garantire il principio metafisico di portata universale quale il nascere come comparsa dell’ente nell’essere e rivelazione dell’essere tramite l’ente. Anche intesa in questo modo, ovvero nel modo più generale in cui si può intenderla, e dunque metafisico, il nascere è qualcosa di evitabile e di non comandato.

Commentando e circostanziando la riflessione di Schopenhauer e delle attestazioni orientali dell’Antinatalismo, Dierna formula il fine a cui un lavoro intellettuale di questo genere, che è in fondo ciò a cui il lavoro filosofico dovrebbe tendere, la necessità di un riscatto, per cui «la redenzione è ciò che si acquisisce per mezzo della conoscenza, la quale non offre nessuna consolazione ma mette in luce la natura essenzialmente dolorosa e incurabile del fenomeno e insieme sopprime la volontà e con essa anche il mondo si dissolve lasciando dinnanzi a noi il Nulla» (p. 147). Più che una sottomissione malinconica e rassegnata, quello auspicato è un percorso che dalla conoscenza del male occorsoci conduce alla gloria del Nulla, ma non come dispositivo metafisico, il rimpatrio degli enti nell’origine, nella soglia pre-natale tra non-essere e ed essere-diventati, bensì come felice contemplazione della calma indifferente che trascende la vita e che il sapere permette di toccare. È la rimozione di una ferita, «la ferita della natura» (p. 188), rimarginabile solo con il distacco dall’ignoranza antropocentrica e dalla «separazione che l’umano ha rivendicato rispetto alle sue origini, alla sua essenza biologica, organica e finita» (p. 188). Una separazione, infatti, che l’antropocentrismo tende a mantenere divaricata ma che un sapere della non-consolazione intende riconciliare con ogni energia nell’evitabilità del nascere come esso stesso sorgere di tale differenza.

Su questa scia, si pongono allora la lucida ricostruzione del dibattito più recente intorno all’Antinatalismo, polarizzato principalmente sulla riflessione di Benatar, e l’inserimento di alcuni rilievi originali che chiariscono e problematizzano lo scenario dell’indagine, soprattutto in riferimento all’argomento forte del filosofo sudafricano della cosiddetta asimmetria, in buona sintesi, tra un male che si può evitare non mettendo al mondo alcun vivente e un bene che non è tale poiché non riferibile a nessuno ancora esistente.

Punto ideale di arrivo di questa disamina, nonché di tutta la riflessione tentata in questo volume, mi sembra coglibile in quest’altra frase, breve ma risolutiva: «È il dolore la ferita ontologica dell’esistenza» (p. 237). Una ferita da risanare con il sapere, che diventa, ricordando un raro Spinoza, meditazione della vita e non della morte, persino della vita-a-venire che sprofonda in se stessa per accettarsi e benedirsi pur nel rifiuto di sé nel proseguire ancora in altri esseri derivati.

Il libro si conclude con un’intelligente apertura alle prospettive ecologiste più avvedute come quella della Deep Ecology, della sostenibilità ambientale e dell’equilibro ormai precario e labilissimo umanità-mondo. L’Antinatalismo prende atto dell’inevitabilità della fine del nostro sistema solare e quindi di tutte le specie, e vorrebbe evitare che altra sofferenza si propaghi. «Ciò che una prospettiva filosofica come l’Antinatalismo, peraltro filantropica e in un certo senso anche umanista nonostante tutto, teorizza è soltanto un’anticipazione di una fine comunque certa. Ciò che essa argomenta con rigore è il dolore di stare al mondo, la sua tragedia. Ciò che discute e propone con lucidità è la possibilità di interrompere questa catena di sofferenza e di farlo prima che accada e in modo incontrollato, di farlo in modo altrettanto naturale e non traumatico, decidendo di non portare nuovi esseri umani al mondo. Ciò su cui riflette è insomma la possibilità di dissolvere un poco del dolore che c’è nel mondo» (p. 334-335). C’è una magnifica umiltà in quest’ultima espressione, quando si legge un poco del dolore, forse all’insegna di una disillusione veramente profonda, sul fatto, soprattutto, che a prevalere nei più sarà comunque la vita, più forte del suo stesso errore.

Tuttavia, ciò che si prova leggendo un libro come questo, ancora più di comprendere – o forse dopo aver compreso, in una forma però decisamente lontana da un ingenuo sentimentalismo che offusca l’algebra della ragione – è una forte dolcezza, una rilassatezza quasi insperata a dispetto dell’incubo del tutto naturale che un argomento terribile come questo dovrebbe suscitare: non ci si sente, infatti, negati né oltraggiati, ma ricondotti a una tenera giustezza, lievi, benedetti dal sapere, baciati dal raggio di un nuovo sole che, secondo Dierna, è invece assente dalla vita, il vuoto di luce con cui chiude il suo libro. Una tenera giustezza invero pericolosa, perché provato questo, la redenzione che una filosofia quand’è radicale è in grado di offrire, induce alla tentazione di regalare comunque sia l’esperienza della vita a un discendente, come un’esperienza della materia che si può intraprendere all’insegna di un furbo saccheggio di gioia, preparato, e quindi protetto, all’infinita vastità del dolore.

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