Il profumo della morte

Recensione a:

Simon Beckett

Il profumo della morte

(The Scent of Death, Bantam Press, London 2019)

Trad. di Fabrizio Coppola

Bompiani

Milano 2022

Pagine 480

€20,00

di Federico Nicolosi

«La maggior parte delle persone crede di saper riconoscere il profumo della morte. Che la decomposizione abbia un odore distintivo, prontamente identificabile, il tanfo rancido della tomba. Ma si sbaglia»[1].

Quello della morte non è un generico “odore”, per il protagonista dell’ultimo romanzo di Simon Beckett. È profumo: qualcosa di affascinante, dunque, quasi seducente. Sottile, delicato, celante e insieme rivelativo della natura più autentica della materia; qualcosa che le persone misconoscono profondamente. The Scent of Death questo profumo, testimone del «selvaggio e violento carattere della vita»[2], intende dirimerlo in tutta la sua radicalità, in tutto il suo essere veritativo, attraverso un’indagine poliziesca incalzante nel ritmo e plausibile nelle sue svolte narrative, mai artificiosa né improbabile[3].

David Hunter è un affermato antropologo forense considerato con stima da tutti i suoi colleghi: questa è la maschera, perlomeno, che gli piace indossare. Hunter è infatti un uomo fragile, timoroso, perennemente insicuro. E lo è perché una tremenda e lucidissima consapevolezza – che solo la sua «macabra professione» poteva donargli – lo accompagna. «Trascorro con i morti lo stesso tempo che passo con i vivi, esplorando gli effetti della decomposizione e della dissoluzione per identificare resti umani e comprendere cosa possa averli ridotti in quello stato»[4]. La consapevolezza, dunque, di quanto più vera sia la morte rispetto alla vita, di quanto più autentico sia il Buio della notte rispetto alla mendace luce della mattina: questa è la consapevolezza con cui ogni giorno deve fare i conti il dottor Hunter.

Questo ‘Buio’ foriero di intime e sofferte meditazioni, rivelatore della sola verità dell’Essere, attraversa ogni momento della vita personale e lavorativa del protagonista. Così, quando un cadavere viene rinvenuto nel solaio di un ospedale abbandonato e frequentato perlopiù da tossicodipendenti e senzatetto a nord di Londra, l’antropologo è chiamato a investigare:

Era come guidare attraverso una città appena bombardata, al buio e deserta. I fasci luminosi dei fari costituivano l’unico conforto contro l’oscurità. Gli alberi e l’alto muro di cinta oscuravano la luce proveniente dalle strade circostanti, facendo apparire il complesso ancora più isolato di quanto non fosse in realtà[5].

Lo squallore, l’isolamento, il grigiore del St Jude’s – lungi dal qualificarsi come un mero espediente narrativo – assurgono a motivo esistenziale del protagonista e riflessivo dell’autore. È l’inesorabilità del Buio che Beckett intende veicolare. E lo fa pagina dopo pagina, con pazienza ma costantemente, rendendoci spettatori del vano e desolato trascinarsi «in codesta vita mortale: o dirò, morte vitale?»[6] di David Hunter.

Tre delitti efferati: una ragazza incinta rinchiusa nel silenzio tombale di «quel solaio lurido» che, senza speranza di salvezza, si era rannicchiata sul pavimento in attesa del naturale sopraggiungere della propria morte; due giovani legati a dei letti e lasciati agonizzare nell’oscurità dell’ospedale. In questo cupo e degradante quadro, «leggero e nascosto dai sentori della polvere e dell’intonaco del soffitto crollato, era il profumo dolciastro e marcio della decomposizione»[7]. Ma in fondo Hunter sa che, dietro quel peculiarissimo fenomeno chimico-biologico che è la decomposizione, si cela la verità più profonda dell’organismo, la sola che conta davvero: la cenere, il puro non-essere. È da morto che l’essente è più vero che mai, difatti, è nel dissolversi per tornare ad essere quello che è sempre stato – nulla – che esso si lascia meglio contemplare. La stagione in cui si concatenano gli eventi narrati dal libro, che è anche la stagione “interiore” del protagonista, è l’autunno. È la stagione della morte, dello spegnersi della mite luce estiva, della sconsolazione. Ma pure la stagione in cui la natura acconsente a mostrare il suo volto più franco.

Anche in ragione di tale segreta presa d’atto, come per Hunter i seminterrati costituiscono il vero cuore pulsante degli edifici, in cui questi si disvelano senza filtri nella loro età, così la notte costituisce la realtà più sincera del giorno, la più dura da accettare.

Le morgue sono luoghi strani già durante il giorno, ma di notte assumono un carattere tutto particolare, e non perché vi sia allora qualcosa di profondamente diverso: ci sono poche finestre – per ovvie ragioni, ci si affida alla luce artificiale – e, come gli ospedali, sono aperte ventiquattro ore su ventiquattro. Eppure ho sempre avvertito che qualcosa cambia comunque. […] La quiete che vi cala ha una qualità diversa, riflessiva, più silenziosa, se possibile. Gravosa, quasi. La consapevolezza della presenza dei morti che abitano l’edificio, i loro corpi disposti su tavoli di metallo o conservati in celle scure e fredde, sembra più profonda[8].

La morgue, per l’impacciato antropologo forense, è (prima che luogo di lavoro) tempio di meditazione, quindi. La morgue va frequentata di notte.E non solo perché durante la notte, lontano dalle voci degli studenti e degli impiegati che la affollano di giorno, essa lascia trasparire il proprio autentico volto, ma forse perché, in fin dei conti, Hunter davvero non sa occuparsi in modo diverso; sicché, «inoltrarmi nel freddo silenzio clinico della morgue fu un vero sollievo. Perlomeno lì avevo un qualche controllo su ciò che accadeva»[9].

Il sollievo che l’antropologo avverte ogni volta che si immerge nel «freddo silenzio clinico» dell’obitorio tradisce, insomma, un profondo disagio che – prima di essere sociale[10] – è esistenziale. Hunter vorrebbe accettare la cruda verità che il suo lavoro gli impone costantemente, la sente, vi crede, ma nei fatti è anch’egli (e in misura per nulla minore degli altri personaggi) irretito da quell’“insensato” attaccamento alla vita che anima l’esistere medio di ogni umano. Summum bonum sarebbe per lui, schopenhauerianamente, «la completa autosoppressione e negazione della volontà, l’assenza di ogni volere; stato d’animo che solo può calmare ogni desiderio, procurare una soddisfazione incapace di turbamento»[11]; eppure questa tacita aspirazione si ritrova sempre risospinta entro quella natura ‘umana, troppo umana’ per la quale cessare di voler perseverare nel proprio essere, di desiderare è semplicemente impossibile. Hunter questo lo sa bene: «Sotto la pelle non siamo che animali. Gli stessi meccanismi di sopravvivenza che proteggevano i nostri antenati primitivi sono ancora presenti in noi, atrofizzati e nascosti alla nostra coscienza per la maggior parte del tempo, ma sono sempre lì»[12].

È una metafisica dell’immanenza, ma anche della rassegnazione, quella di Simon Beckett: neanche colui che è in grado di disoccultare e guardare con coraggio la dolorosa verità dell’Essere può affrancarsene. Non vi è ascesi né meditazione capace di quietare l’affanno che definisce ontologicamente l’esistente, la tensione che lo tallona in maniera così irrimediabile. Non vi è ingenua filantropia né vacuo ottimismo antropologico in potere di negare che, dietro quell’«impasto di scintilla dionisiaca e cenere titanica che chiamiamo umano»[13], c’è soltanto una «macchina pneumatica che ingerisce ossigeno e cibo e li espelle sotto forma di escrementi e parole»[14]. Non vi è filosofia, culto né credenza alcuna che possa mai ovviare al fatto che «sotto la pelle non siamo che animali», che, insieme al Leib senziente che siamo, noi tutti abitiamo anzitutto un Körper biologico refrattario a qualsivoglia imperativo razionale. «Noi parliamo di natura e intanto ci dimentichiamo di noi stessi: noi stessi siamo natura, quand même»[15].

L’indagine del St Jude’s sarà dunque in primis un banco di prova per David Hunter. È con la sua propria vita, con gli spettri del proprio passato e con le consapevolezze del presente che il protagonista di questo cupo romanzo sarà chiamato a confrontarsi, nella sempre inconfessata speranza di riuscire in un modo o nell’altro – sia anche tramite l’annullamento della stessa esistenza cui tanto è legato – a redimersi dal ‘male di vivere’. La morte per così dire “caratterizzata”, la morte di questo essente, infatti, è un evento del tutto indifferente all’interno dell’incessante divenire dell’Universo, non meritevole di alcun compiacimento. E l’assassino di Adam Oduya in una fredda serata autunnale ne è la prova:

La pioggia della notte aveva ripulito l’asfalto dal sangue e il furgone colpito dall’auto era stato portato via. Anche senza le schegge in plastica dello specchietto e il nastro svolazzante, avrei potuto immaginare ogni cosa. La gente oltrepassava la scena senza farci caso. Una persona era morta, ma il mondo andava avanti. Come sempre[16].

Nessuna polemica velata, nessuna considerazione morale dietro queste parole; la fredda presa d’atto di quanto insignificante sia quel grumo di materia organica che per qualche decina di anni siamo tenuti a incarnare, dal momento in cui veniamo consegnati al dolore dell’esistere a quello in cui finalmente torniamo a essere inghiottiti nel Nulla che ci ha partorito.

La morte, pur nella sua irrilevanza, si riconferma pertanto inevitabilmente più veridica della vita. E questa evidenza si palesa soltanto progressivamente ad Hunter, facendosi sempre più negli ultimi capitoli celata (ma solida) convinzione. Così, una volta ferito letalmente dall’anziana e solo apparentemente innocua Lola,

Il ronzio stava diventando assordante. Mi riempiva la testa mentre giacevo supino. Non sentivo più il mio corpo. All’inizio ne fui preoccupato, ma dopo fu un sollievo. Fui invaso da uno strano senso di pace. Eccoci, pensai, mentre la mia vista svaniva. Mi sentii triste per Rachel, poi vidi Kara e Alice. Sentii la risata di mia figlia e, prima che la nebbiolina grigia diventasse nera, sorrisi al pensiero di loro due che mi aspettavano a casa[17].

Attraverso una difficile indagine poliziesca, The Scent of Death squaderna quindi lo stare al mondo dell’umano fin nei suoi gangli più ostici e più aspri. Lo fa, tuttavia, in un modo quasi mai esplicito – le sequenze dialogiche ed espositive sono nettamente superiori rispetto a quelle riflessive – e sempre sotteso alla narrazione dei fatti, rendendo di conseguenza la lettura agile e coinvolgente anche per il lettore meno scrupoloso. E in effetti credo si possa dire che la genialità di Beckett risieda, da ultimo, proprio in questo: nell’essere riuscito a contemperare così magistralmente la pregnanza teoretica con la “leggerezza” narrante, dando vita a un’opera perfetta sotto una molteplicità di aspetti, dall’accuratezza scientifica alla rara abilità della penna.


[1] S. Beckett, Il profumo della morte (The Scent of Death, 2019), trad. di F. Coppola, Bompiani, Milano 2022, p. 7.

[2] F. Nietzsche, Umano, troppo umano I (Menschliches, Allzumenschliches, Ein Buch für freie Geister, 1878), nota introduttiva di M. Montinari, vers. di S. Giametta, Adelphi, Milano 1977, p. 169.

[3] Come rivela lo stesso Beckett in appendice all’opera (cfr. S. Beckett, Il profumo della morte, cit., pp. 477-478), un così perfetto equilibrio tra genialità narrativa e accuratezza espositiva (tanto nel lessico tecnico-specifico dell’antropologia forense quanto nella credibilità delle vicende investigative) non poteva essere raggiunto senza lo studio attento di numerose fonti scientifiche da parte dell’autore e senza il supporto di figure esperte in materia di medicina forense e indagine investigativa. Tale impegno e tale rigore scientifico tralucono da ogni pagina del romanzo, in particolar modo dalle lunghe dissertazioni dedicate all’azione delle Calliphoridae (mosconi della carne) nella decomposizione del cadavere e agli agenti chimici responsabili di questo complicato processo biologico.

[4] Ivi, p. 23.

[5] Ivi, p. 25. Esattamente allo stesso modo della fortunata serie televisiva True Detective, la geografia di questo romanzo è pensata fin nei minimi dettagli, di modo tale da farsi vero e proprio medium ‘visivo-sensoriale’ del messaggio veicolato dall’autore. In riferimento alla ricercata locationdella serie prodotta da Nic Pizzolato, Palma osserva infatti come questa sia interamente ambientata «in mezzo a lamiere, baracche nel bosco, paludi, corruzione, chiese bruciate o itineranti, criminali spacciatori e tossico-dipendenti, miscredenza religiosa e fanatismo esoterico. Un posto in cui la vita dovrebbe scorrere indisturbata senza improvvise fluttuazioni di sorta, sicché quando accade un evento fuori dall’ordinario risuona con ancora più volume» (E. Palma, Il cielo stellate del bene. La metafisica del negativo in ‘True Detective’, in «Dialoghi mediterranei», n. 67/2024, p. 529). Analogo è il pensiero dietro la scelta, da parte di Beckett, dell’isolato e malfamato St Jude’s.

[6] Sant’Agostino d’Ippona, Confessioni (Confessionum libri XIII, 398 d.C.), intr. di C. Mohrmann, trad. di C. Vitali, BUR Rizzoli, Milano 2006, p. 80.

[7] S. Beckett, Il profumo della morte, cit., p. 54.

[8] Ivi, p. 226.

[9] Ivi, p. 168.

[10] Hunter, infatti, è reduce da un tentato omicidio che gli ha lasciato non poche ferite psicologiche, sebbene questi non acconsenta in alcun modo a lasciare la casa in cui era stato quasi ucciso da Grace Strachan affinché non si dia l’impressione di un uomo “in fuga da un fantasma”. A questo andrebbe poi aggiunto il precario rapporto con la compagna, Rachel, la quale appare sempre più dubbiosa nei riguardi di una relazione minata ormai fino alle fondamenta dal lavoro dello stesso Hunter.

[11] A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione (Die Welt als Wille und Vorstellung, 1819), a cura di A. Vigliani, intr. di G. Vattimo, Mondadori (ed. “I Meridiani”), Milano 2007, §65, p. 509.

[12] S. Beckett, Il profumo della morte, cit., pp. 119-120.

[13] A.G. Biuso, Tempo e materia. Una metafisica, Leo S. Olschki Editore, Firenze 2020, p. 107.

[14] Id., Chronos. Scritti di storia della filosofia, Mimesis, Milano-Udine 2023, p. 60.

[15] F. Nietzsche, Umano, troppo umano II (Menschliches, Allzumenschliches. Ein Buch für freie Geister, 1878), nota introduttiva di M. Montinari, vers. di S. Giametta, Adelphi, Milano 1981, p. 264.

[16] S. Beckett, Il profumo della morte, cit., p. 353.

[17] Ivi, p. 422.

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