Il destino di Edipo è tutti noi. Una lettura de “La strada” di Pavese

di Enrico Palma

Tutti sanno che Edipo, vinta la sfinge e sposata Giocasta, scoprì chi era interrogando il pastore che l’aveva salvato sul Citerone. E allora l’oracolo che avrebbe ucciso il padre e sposata la madre fu vero, e Edipo si accecò dall’orrore e uscì da Tebe e morì vagabondo.

Una sintesi migliore di questa del mito di Edipo non la si poteva trovare. Qual è la sua storia, il plot di questo racconto immemorabile? Edipo, figlio di Laio e di Giocasta, esposto sul Citerone, viene salvato da un pastore, e cresce ignorando la sua vera identità e il suo destino. Vince la Sfinge, che, com’è noto, sottoponeva un enigma a coloro i quali passavano dal crocicchio che sorvegliava e divorava chi non riusciva a risolverlo. E infine diviene re di Tebe, uccidendo il padre, quasi per caso, e sposando la madre, da cui genera una prole incestuosa. Una colpa, assolutamente involontaria ma comunque doverosamente punibile secondo la mentalità greca, che lo conduce alla rovina, a cercare la causa della pestilenza nella sua città, fin quando non gli viene rivelata la più truce delle verità: il male dal quale Edipo si sforza di purificare la sua città in realtà è lui stesso, sicché, per non sopportare l’orrore che egli rappresenta e per darsi una giusta punizione, si acceca e abbandona Tebe. Edipo, dunque, diviene un essere immondo, un abominio vivente, una creatura su cui il destino ha infierito con terribile ferocia e crudeltà. Ed è questo preciso Edipo a interessare Pavese, è sulla sua condizione – quella che altrimenti i francesi chiamerebbero condition humaine – che riflette, proponendoci una meditazione di una finezza e una potenza non comuni, tali da giungere, almeno a mio giudizio, al cuore di ciò che chiamiamo umanità e che in genere facciamo corrispondere alla nostra esistenza, nel momento in cui essa è più nuda e spoglia di ogni orpello.

L’attacco introduttivo che ci dà Pavese è molto intrigante, perché intercetta benissimo la relazione che intercorre tra l’insieme dei fatti che definisce la nostra vita – il nostro destino – e la conoscenza che abbiamo di esso, tant’è che la verità dell’oracolo si compie non appena Edipo giunge alla piena consapevolezza della sua identità e della sua sorte infausta. In soli tre verbi, Pavese ci consegna tutto Edipo: si acceca, esce dalla città e muore, vagando come un essere interamente privato della sua essenza e di ogni senso possibile. Ma quello che può farsi con Edipo, con quest’uomo terrificante reso tale per le azioni compiute, è ancora tanto. Sottintende Pavese, infatti, che lo si può ancora incontrare, ed è nella ricchezza di questo incontro che può nascere un nuovo apporto conoscitivo. Di tutte le figure che potevano concepirsi come interlocutori ideali di Edipo, Pavese sceglie il mendicante, l’uomo di strada, il barbone, il clochard, il reietto della vita e della società, che vaga per il mondo allo stesso modo del fu re di Tebe. Un incontro impossibile, se vogliamo, se solo lo si fosse immaginato prima che si compisse il destino di Edipo: un re, insomma, che incontra il più umile dei suoi sudditi, un uomo da niente, ridotto agli stenti per la volubilità della sorte. Ma adesso è un incontro alla pari, in cui un vagabondo parla a un altro vagabondo, entrambi collocati su una strada che per loro è tutto il mondo, lontani da un trono o da un focolare, persino dal concetto per noi usuale di umanità. Vedremo che il dialogo si struttura sulla base di questa iniziale differenza gerarchica, che nel corso delle battute si sfumerà sempre di più fino ad appiattirsi in una orizzontalità autentica, in un’uguaglianza ritrovata, talché, alla fine, re e mendicante coincideranno in un concetto unificante di umanità.

Edipo – Non sono un uomo come gli altri, amico.

È la prima cosa che Edipo dice di se stesso: non essere come gli altri, essere diverso. Certo, è stato re, e un re non è un uomo come gli altri, occupa nella scala delle creature un posto certamente più alto. E non è come gli altri per via del destino che gli è occorso, dei terribili reati commessi e della sorte dolorosissima che si è accanita contro di lui. Un uomo regale, dunque, e un uomo doloroso. Così dice all’amico. Una parola non detta a caso, indubbiamente, non una formula di circostanza, se vogliamo una rievocazione del significato profondo della philia, dell’amicizia che per i Greci era innanzitutto riconoscimento di una dignità comune, di una condizione che si abbraccia all’unisono.

Io sono stato condannato dalla sorte. Ero nato per regnare tra voi. Sono cresciuto sulle montagne. Vedere una montagna o una torre mi rimescolava – o una città in distanza, camminando nella polvere. E non sapevo di cercare la mia sorte. Adesso non vedo più nulla e le montagne son soltanto fatica. Ogni cosa che faccio è destino. Capisci?

Ogni cosa che compie Edipo, il quale ci racconta la sua storia sin dall’infanzia, che per la poetica pavesiana riveste un ruolo pressoché assoluto, è destino, è fato, è il volere degli dèi. Edipo, dicendo questo, afferma di non essere libero, di vivere la sua vita all’ombra di un disegno che non ha mai conosciuto e che, nel momento in cui esso viene alla luce mostrandosi in tutto il suo orrore, non può più essere evitato. Ha visto, quando aveva gli occhi, ma non riusciva a pre-vedere, a vedere in anticipo, poiché ciò che era in serbo per lui, che gli piacesse o no, era già scritto. Edipo, dunque, è un re spodestato, un uomo smarrito, un abominio vivente, una creatura la cui esistenza era già stata condannata senza possibilità di redenzione.

Mendicante – Io sono vecchio, Edipo, e non ho visto che destini. Ma credi che gli altri – anche i servi, anche i gobbi o gli storpi – non amerebbero esser stati re di Tebe come te?

Il mendicante, dall’alto della saggezza dei suoi anni, afferma di averne viste altre di esistenze condannate lungo la strada. Ma ci dice una cosa molto interessante: anche se adesso vivi come uno sciagurato, senza casa, senza patria, senza la vista – sembra dire il mendicante – credi che la tua condizione sia inferiore a quella di coloro che ti avrebbero certamente invidiato per la tua regalità passata? Ad esempio gli schiavi o i deformi di ogni genere, che avrebbero gioito ed esultato grandemente se soltanto avessero avuto la possibilità, nella loro vita, di vivere anche un unico anno come re Edipo?

Edipo – Capiscimi, amico. Il mio destino non è stato di aver perso qualcosa. Né gli anni né gli acciacchi mi spaventano. Vorrei cadere anche più in basso, vorrei perdere tutto – è la sorte comune. Ma non essere Edipo, non essere l’uomo che senza saperlo doveva regnare.

Edipo ribadisce ancora il suo destino. Non sono la vecchiaia e ciò che ne consegue a spaventarlo. Sarebbe ben lieto di perdere ogni cosa – potere, regalità, prestigio, persino la vita stessa – pur di non essere l’uomo che come un pupazzo mosso dal destino doveva assurgere al trono e pagarne il prezzo così caramente. È la sorte comune, dice Edipo, invecchiare, soffrire e morire, ma la mia vita, pare aggiungere, è qualcosa di molto peggio.

Mendicante – Non capisco, Ringrazia che sei stato signore e hai mangiato, hai bevuto, hai dormito dentro un letto. Chi è morto sta peggio.

Sii riconoscente per quello che hai avuto, che non è poco, di essere stato re degli uomini e padrone di bestie, e per aver navigato nel lusso e negli agi più solenni. Diversamente da altri hai vissuto la tua vita nel modo migliore che ti potesse capitare. Il mendicante ricorda a Edipo di pensare a chi tutto ciò non solo non ce l’ha ma non può più averlo. La morte, del resto, è la fine di tutto. Viene allora alla mente l’undicesimo libro dell’Odissea e il terribile e commovente racconto di Achille, il quale confessa a Odisseo che sarebbe preferibile vivere da schiavo nel mondo dei vivi che sopportare d’essere il più rispettato tra i morti.

Edipo – Non è questo, ti dico. Mi duole di prima, di quando non ero ancora nulla e avrei potuto essere un uomo come gli altri. E invece no, c’era il destino. Dovevo andare e capitare proprio a Tebe. Dovevo uccidere quel vecchio. Generare quei figli. Val la pena di fare una cosa ch’era già come fatta quando ancora non c’eri?

Non è della morte che parla Edipo. Il discorso, man mano che avanza, si chiarisce, tentando di giungere a un’intesa, di capirsi nei loro rispettivi punti di vista. Aventi come oggetto, non bisogna dimenticarlo, proprio il destino. Edipo si rammarica per il prima, di quando non era nessuno e non poteva nemmeno immaginare che sarebbe diventato re, avrebbe governato Tebe e con la sua presenza minacciato la città con una severissima pestilenza di cui lui stesso era la causa scatenante. Per la seconda volta nel dialogo ribadisce che avrebbe potuto essere come gli altri, essere semplicemente un uomo. Ma ciò non è stato possibile, perché c’era il destino. Dunque la sua esistenza doveva essere condannata. Doveva uccidere quel vecchio che era in realtà suo padre, e doveva generare quei figli incestuosi con la propria madre. Doveva compiere quelle azioni atroci. E a cosa vale, si chiede Edipo, la vita se non è in nostro potere di viverla come si desidera, se in modo implacabile e terribile la volontà ne è assolutamente esclusa? In altre parole, e giungiamo, forse, alla domanda che riassume tutto il dialoghetto: che senso ha vivere una vita già scritta? La risposta del mendicante vale un’intera metafisica.

Mendicante – Vale la pena, Edipo. A noi tocca e ci basta. Lascia il resto agli dei.

Ci tocca vivere questa vita, e tanto basta. Sembra quasi l’accettazione del fatto che non possiamo penetrare, come di fatto non possiamo, negli arcani della vita, che non siamo in grado di rispondere alla domanda perché la vita è così? E così come? Nel modo in cui ce l’ha spiegata Edipo, un re divenuto mostro: dolente, sofferta, dolorosa, terrificante. Gli dèi lo sanno. Lascia a loro quello che non capiamo. Rispetta e prendi atto dell’incomprensibile, dell’inaccessibile e dell’ineffabile, di ciò che non si può conoscere, di ciò che non si può penetrare, di ciò che non si può dire. Viviamola questa vita, comunque sia.

Edipo – Non ci son dei nella mia vita. Quel che mi tocca è più crudele degli dei. Cercavo, ignaro come tutti, di far bene, di trovare nei giorni un bene ignoto che mi desse la sera un sollievo, la speranza che domani avrei fatto di più. Nemmeno all’empio manca questa contentezza. M’accompagnavano sospetti, voci vaghe, minacce. Da principio era solo un oracolo, una trista parola, e sperai di scampare. Vissi tutti quegli anni come il fuggiasco si guarda alle spalle. Osai credere soltanto ai miei pensieri, agli istanti di tregua, ai risvegli improvvisi. Stetti sempre all’agguato. E non scampai. Proprio in quegli attimi il destino si compiva.

Edipo ha tentato di scampare a questa sorte, opponendo al destino ciò che gli è contrario per definizione, e cioè la speranza. Ha sperato che le cose andassero diversamente, che l’oracolo, ovvero la profezia che lo riguardava, fosse solo una trista parola, e cioè una parola che dà sconforto, promette dolore. Aveva creduto a ciò che il suo pensiero gli suggeriva, dimenticando, però, che la struttura del mondo non è come la concepiamo soggettivamente ma come essa ci trascende, ed è lì, nell’oggettività, che abita la verità. Nella falsità della speranza si stava preparando quindi il suo destino, e con esso la sua condanna.

Mendicante – Ma, Edipo, per tutti è così. Vuol dir questo un destino. Certo i tuoi casi sono stati atroci.

Il mendicante però non si arrende dal mostrare il suo parere. E controbatte Edipo asserendo che esattamente questo vuol dire destino. Agire nella vita sperando che l’azione compiuta coincida con un tracciato benevolo, una coincidenza che in altri termini potremmo definire come fortuna.

Edipo – No, non capisci, non capisci, non è questo. Vorrei che fossero più atroci ancora. Vorrei essere l’uomo più sozzo e più vile purché quello che ho fatto l’avessi voluto. Non subito così. Non compiuto volendo far altro. Che cosa è ancora Edipo, che cosa siamo tutti quanti, se fin la voglia più segreta del tuo sangue è già esistita prima ancora che nascessi e tutto quanto era già detto?

Edipo non ha voluto ciò che ha compiuto. È stato inserito in un disegno più grande di lui e del quale non ha conosciuto nulla fintantoché non si è realizzato in tutte le sue parti, senza risparmiargli niente, la benché minima speranza di poter cambiare le cose e di poter scampare a questa sorte balorda. La vita, insomma, è questa colpa di cui non conosciamo niente se non il fatto che dobbiamo scontarla vivendola. Almeno, suggerisce, Edipo, l’avessi voluto, fossi stato realmente conoscitore di quanto ho commesso. E invece no, ha fatto tutto questo senza sapere, e nonostante ciò è comunque colpevole e il suo reato è inemendabile. Ribadisce allora lo stesso pensiero, articolandolo meglio: che senso ha vivere se non siamo altro che destino che accade all’infuori del nostro controllo e della nostra volontà, e le sorti umane sono state scritte, la più antica delle storie per cui vivere è morire, esistere è soffrire?

Mendicante – Forse, Edipo, qualche giorno di contento c’è stato anche per te. E non dico quando hai vinto la Sfinge e tutta Tebe ti acclamava, o ti è nato il tuo primo figliolo, e sedevi in palazzo ascoltando il consiglio. A queste cose non puoi più pensare, va bene. Ma hai pure vissuto la vita di tutti; sei stato giovane e hai veduto il mondo, hai riso e giocato e parlato, non senza saggezza; hai goduto delle cose, il risveglio e il riposo, e battuto le strade. Ora sei cieco, va bene. Ma hai veduto altri giorni.

Eppure, ricorda il mendicante, Edipo non è stato sempre l’Edipo dell’Edipo a Colono, l’abominio vivente che tutti rifuggono come la peste. Edipo è stato anche quello dell’Edipo re, ha avuto in sorte di vivere l’esistenza di un sovrano. Ma prima ancora che quella del sovrano, Edipo ha vissuto la vita d’un uomo, la vita di tutti. Ora è cieco, certo, è colpevole, ma ha vissuto altri giorni. Benché re, Edipo ha vissuto la vita come ognuno di noi la vive, perché, prima di essere un sovrano, è infatti un uomo. Un uomo che è stato giovane, ha goduto delle cose saggiamente, si è divertito, ha giocato e discusso, persino sedendosi sul posto più alto di tutti, il trono. Ma la regalità, piuttosto che essere cima della gerarchia creaturale, è ciò che ci fa vedere la vita umana nel modo più chiaro e distinto. Walter Benjamin affermava che il sovrano è signore di tutte le creature ma resta creatura, nella sua figura la creatura trova il momento più alto della sua conoscenza, della sua auto-comprensione, come se nel re, che è spicco dell’umanità, quest’ultima diventasse meglio coglibile.

Edipo – Sarei folle, a negarlo. E la mia vita è stata lunga. Ma di nuovo ti dico: ero nato per regnare tra voi. A chi ha la febbre le frutta più buone danno soltanto smanie e nausea. E la mia febbre è il mio destino – il timore, l’orrore perenne di compiere proprio la cosa saputa. Io sapevo – ho saputo sempre – di agire come lo scoiattolo che crede d’inerpicarsi e fa soltanto ruotare la gabbia. E mi domando: chi fu Edipo?

Edipo, tuttavia, sostiene che la sua vita è stata macchiata, adulterata, compromessa dal destino, che l’ha resa appunto invivibile e corrotta. Una continua apprensione di compiere la cosa saputa che per lui ha significato l’omicidio del padre e l’incesto con la madre. Per gli altri umani, i quali per destino non sono diversi da lui, significa fare la propria vita.

Mendicante –  Un grande un vero signore, puoi dirlo. Io sentivo parlare di te, sulle strade e alle porte di Tebe. Ci fu qualcuno che lasciò la casa e girò la Beozia e vide il mare, e per avere la tua sorte andò a Delfi a tentare l’oracolo. Vedi che il tuo destino fu tanto insolito da mutare l’altrui. Che dovrà dire invece un uomo sempre vissuto in un villaggio, in un mestiere, che fa ogni giorno un solo gesto, e ha i soliti figli, le solite feste, e muore all’età di suo padre del solito male?

Lo stesso mendicante confessa che la storia di Edipo è stata in grado di modificare il suo destino, di motivarlo a seguire i suoi passi. E quindi il destino edipico ha mutato quello altrui. Perché questo? Perché Edipo è invidiabile. Il destino lo ha innalzato, facendolo diventare re e dandogli la vita che gli era stata promessa dai suoi natali, per poi farlo sprofondare nella più totale abiezione, in un sistema di forze, se si vuole, a somma zero. La vita di Edipo è stata più ricca, più agiata, più alta, certamente più interessante di chi ha fatto sempre le solite cose, ha vissuto della ripetizione destinale dei suoi padri.

Edipo – Non sono un uomo come gli altri, lo so. Ma so che anche il servo o l’idiota se conoscesse i suoi giorni, schiferebbe anche quel povero piacere che ci trova. I disgraziati che han cercato il mio destino, sono forse scampati al proprio?

Mendicante –  La vita è grande, Edipo. Io, che ti parlo, sono stato di costoro. Ho lasciato la casa e percorso la Grecia. Ho visto Delfi e sono giunto al mare. Speravo l’incontro, la fortuna, la Sfinge. Ti sapevo felice nella reggia di Tebe. Ero un uomo robusto, allora. E se anche non ho trovato la Sfinge, e nessun oracolo ha parlato per me, mi è piaciuta la vita che ho fatto. Tu sei stato il mio oracolo. Tu hai rovesciato il mio destino. Mendicare o regnare, che importa? Abbiamo entrambi vissuto. Lascia il resto agli dei.

Edipo ha cambiato la vita del mendicante e di tanti altri. Se non fosse stato per Edipo, egli avrebbe vissuto la stessa vita dei suoi padri, avrebbe ripercorso l’eterno ritorno dell’identico. Ha ottenuto l’indipendenza andando via da casa, ha viaggiato, ha visto il mondo, ha conosciuto il destino e ha visto il mare, come segno del limite invalicabile della conoscenza esistenziale. Ma al mendicante non era prescritto di trovare la Sfinge, di trovarla e vincerla, e nonostante ciò la vita che ha vissuto lo ha soddisfatto. Edipo, con il suo destino, con questa figura voluta dagli dèi con cui essi hanno giocato con l’umanità, ha ispirato altri uomini. Il mendicante, preferendo Edipo al destino degli altri, è diventato se stesso, mendicante, ma ha vissuto con soddisfazione. E ribadisce la sua opinione, ripete la sua formula della saggia accettazione. Qual è la differenza tra Edipo e il mendicante, tra noi ed Edipo, tra tutti gli uomini? Mendicare o regnare, che importa? Abbiamo entrambi vissuto. Lascia il resto agli dei. Dice il mendicante. E così è. La lezione di Pavese non poteva essere più chiara: pur con tutte le sciagure, la mancanza di volontà, l’orrenda fine che ci è toccata, vivere in strada come dei vecchi pieni di rimorsi e di rimpianti, maledicendo gli dei per averci dato questa vita che ci tocca vivere, si è vissuto. E tanto basta.

Edipo – Non saprai mai se ciò che hai fatto l’hai voluto… Ma certo la libera strada ha qualcosa di umano, di unicamente umano. Nella sua solitudine tortuosa è come l’immagine di quel dolore che ci scava. Un dolore che è come un sollievo, come una pioggia dopo l’afa – silenzioso e tranquillo, pare che sgorghi dalle cose, dal fondo del cuore. Questa stanchezza e questa pace, dopo i clamori del destino, son forse l’unica cosa che è nostra davvero.

Se così si fa, se si accetta e si abbraccia la condizione umana per quella che è, dopo i clamori del destino, i dardi della fortuna avrebbe detto un altro sovrano compianto almeno quanto Edipo, l’Amleto di Shakespeare, si vive stanchi ma in pace, dopo una lunga fatica dopo la quale subentra il riposo, dopo aver fatto il tanto che richiede la vita. Uno stato d’animo, una consapevolezza veramente trasformatrice, che è il pegno che Pavese, tramite Edipo, dà al suo lettore. Una pace, una serenità, che diversamente dal destino può essere realmente posseduta, essere nostra, anche contro il dolore che è la sorgiva del senso del nostro esistere.

Mendicante – Un giorno non c’eravamo, Edipo. Dunque anche le voglie del cuore, anche il sangue, anche i risvegli sono usciti dal nulla. Sto per dire che anche il tuo desiderio di scampare al destino, è destino esso stesso. Non siamo noi che abbiamo fatto il nostro sangue. Tant’è saperlo e viver franchi, secondo l’oracolo.

La nostra vita non è stata fatta da noi, eppure la viviamo comunque. Ma altra cosa sarebbe viverla con questo sapere, la conoscenza dell’ineluttabilità del destino e della necessità della vita, anche nei suoi aspetti più cupi e crudeli.

Edipo – Fin che si cerca, amico, allora sì. Tu hai avuto fortuna a non giungere mai. Ma viene il giorno che ritorni al Citerone e tu più non ci pensi, la montagna è per te un’altra infanzia, la vedi ogni giorno e magari ci sali. Poi qualcuno ti dice che sei nato lassù. E tutto crolla.

Mendicante – Ti capisco, Edipo. Ma abbiamo tutti una montagna dell’infanzia. E per lontano che si vagabondi, ci si ritrova sul suo sentiero. Là fummo fatti quel che siamo.

Edipo parla dell’origine, di quella scintilla iniziale da cui siamo stati fatti, che per lui apparteneva a un’altra vita, quella del pastore e non del re.

Edipo – Altro è parlare, altro soffrire, amico. Ma certo parlando, qualcosa si placa nel cuore. Parlare è un poco come andare per le strade giorno e notte a modo nostro senza mèta, non come i giovani che cercano fortuna. E tu hai molto parlato, e visto molto. Davvero volevi regnare?

Una cosa è parlare, come hanno fatto i due uomini di questo dialogo, altro invece è la realtà della vita. Come dire: può anche darsi che il dire del mendicante sia vero e giusto, anzi indispensabile per durare ancora nell’esistenza, ma la vita è altra cosa; quando si soffre tutto questo discutere potrebbe sciogliersi come neve al sole. Ma parlando, dice Edipo, qualcosa si placa nel cuore, perché dialogando si danno le parole ai propri pensieri, e solo nominandoli essi vengono conosciuti. E ammette che il mendicante ha parlato e visto molto, ha scambiato esperienze e osservato il mondo, laddove, ancora una volta, parlare e vedere sono le azioni esatte della conoscenza. Edipo, per di più, non può più vedere, e per placare la sua furia contro il destino e contro gli dèi può parlare e anche ascoltare, udire le sagge parole di un mendicante, l’ultimo degli uomini, che gli indica di essere comunque contento e soddisfatto, perché la sua vita l’ha comunque avuta.

Mendicante – Chi lo sa? Quel che è certo, dovevo cambiare. Si cerca una cosa e si trova tutt’altro. Anche questo è destino. Ma parlare ci aiuta a ritrovare noi stessi.

Voleva veramente regnare, essere Edipo? L’uomo più sciagurato? Sì, e aveva agito di conseguenza, ma pur avendo cercato aveva trovato altro, aveva fatto un’altra vita scampando al destino di tutti. E parlando, confrontandosi tra di loro, Edipo e il mendicante ritrovano se stessi, ritrovano insomma l’umanità che soprattutto il primo aveva ritenuto di aver smarrito.

Edipo – E hai famiglia? hai qualcuno? Non credo.

Mendicante – Non sarei quel che sono.

Pavese, nel suo romanzo più famoso La luna e i falò, aveva detto che un’esistenza ben spesa è prendere un pezzo di terra, farlo a vigna e trovarsi una donna, e con essa dare al proprio sangue altra vita, generando una prole. Edipo l’aveva avuto.

Edipo – Strana cosa che per capire il prossimo ci tocchi fuggirlo. E i discorsi più veri sono quelli che facciamo per caso, tra sconosciuti. Oh così dovevo vivere, io Edipo, lungo le strade della Fòcide e dell’Istmo, quando avevo i miei occhi. E non salire le montagne, non dar retta agli oracoli…

Mendicante – Tu dimentichi almeno un discorso di quelli che hai fatto.

Edipo – Quale, amico?

Mendicante –  Quello al crocicchio della Sfinge.

Poteva avere un’altra vita se solo non avesse salito le montagne, ucciso quel vecchio, dando così inizio al suo mito. Ma il mendicante gli ricorda del più importante dei suoi discorsi, quello fatto alla Sfinge, l’indovinello risolto. Edipo aveva compreso cosa fosse l’umanità, un processo temporale che dalla nascita transita per l’infanzia, l’adultità e la vecchiaia, e finisce. Aveva intuito il destino. Edipo, pur nelle sue sciagure, aveva vissuto nientemeno che questo destino.

In tal senso, allora, si può dire con Pavese che la strada di Edipo è la anche la nostra strada, che Edipo è tutti noi.

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