di Federico Nicolosi
Con l’amore si può vivere anche senza felicità. Anche nel dolore la vita è una buona cosa. Stare al mondo è una buona cosa, comunque si viva. Ma qui cosa c’è se non… fetore?[1]
La tortura, l’oscurità, l’oscenità: anche questo è Dostoevskij. Questo Dostoevskij intende mettere in scena. E lo fa nel modo più crudo, più schietto, più coraggioso che gli riesca. Che si tratti di una serie TV, di un film o, come ai fratelli D’Innocenzo è piaciuto definirlo, di un ‘romanzo’, Dostoevskij si mostra fiero, fin dai primi secondi, nel suo essere un’opera che non ha paura: che non ha paura di scendere in interiore homine e di squadernare il dramma che lo anima; che non ha paura di stagliarsi anche con violenza dinnanzi a qualsiasi pubblico; che non ha paura di prendere le distanze da quel “patinato” che domina una generosa porzione del panorama cinematografico italiano contemporaneo. «La cosa più oscura che abbia visto in vita mia. Più nera del noir stesso»[2]: questo è Dostoevskij.
Un uomo giace a terra. La posa composta, in attesa della sua fine; gli occhi rivolti al soffitto, smarriti ma vigili. Confezioni vuote di psicofarmaci – un gran numero – disposte ordinatamente su di un tavolo austero. Una lettera. L’interno di un appartamento “nudo”, essenziale nel suo squallore, desolato nella monotonia della sua tintura, di un bianco-grigio lugubre. Un frigorifero (vuoto). La foto di una ragazza appesavi di sopra. Così si apre Dostoevskij; così è fatto il sottosuolo in cui dimora un essere – un poliziotto, un padre, un uomo, nessuno dei tre? – che ha perso la sua ‘lucina’ molto tempo fa, un essere indegno, così indegno di vivere da non esser degno neanche di morire. È lì che abita Enzo Vitello: tra la vita e la morte, tra il buio e la luce, tra l’essere e il nulla.
In questa cornice che ha dell’eliotiano si inscrive un’indagine di polizia deliberatamente poco plausibile nel modo di procedere, tra inferenze improbabili, divise irrealistiche, investigatori demotivati e scontrosi, permeati di un umore rassegnato, abbandonato. Dostoevskij è il nome in codice di un serial killer inafferrabile sia “empiricamente” che interiormente, che da tempo indeterminato minaccia la periferia di Roma: nessun apparente collegamento tra le vittime, nessuna coerenza nel modus operandi, nessun movente esplicito; soltanto delle erudite lettere lasciate sulle scene del delitto e realizzate con un cinismo che si riflette perfino nella grafia, iper-ordinata, più maniacale di quella dello Zodiac di David Fincher, quasi non umana. «Ritratti delle vittime nei loro ultimi istanti di vita, infarciti da aggettivi freddi, dissertazioni depresse e una finta naturalezza che vorrebbe farci intendere che l’unica motivazione dei delitti è la vita stessa»[3].
La «vita stessa», questo è il reale movente di Dostoevskij. Questo è, invero, ciò che il trasandato Vitello in un’indagine poliziesca che è specchio e a un tempo motivo di indagine esistenziale vuole investigare; questo, ciò che i D’Innocenzo in Dostoevskij intendono scandagliare con efferata lucidità, «il selvaggio e violento carattere della vita»[4]. La filosofia del killer (che si troverà nel corso degli episodi coincidere con quella di Vitello), ben delineabile nelle fonti e nell’ispirazione di fondo, è infatti drasticamente immanentistica e materialista, con dei manifesti risvolti nichilistici che è difficile immaginare non siano debitori all’ormai celebre Rust di True Detective[5]. È una filosofia del corpo, ma soprattutto della finitudine, quella dei D’Innocenzo, magistralmente celati dietro i loro personaggi; una filosofia capace, per mezzo di una scrittura acuta e di una ricerca (in questo caso, una non-ricerca) formale e stilistica scrupolosa, di dipanare l’esistere umano in tutta la sua negatività, di rivelare altresì l’essere nell’insensatezza di fondo che lo intrama, nella drammatica e irreparabile relazione dialettica col nulla che lo attraversa. Tutto questo emerge con fervore dalle acute lettere di Dostoevskij:
Non so come le persone facciano a entusiasmarsi per il sesso. Quello che vedo io sono solo corpi che odiamo e che incastriamo come in un puzzle quando da bambini non ci va di giocare ai puzzle. Stavano scopando loro due, come diciamo tutti i giorni. Stavano godendo, come diciamo tutti i giorni. Scopando, venendo, inculando, sbattendo, sborrando. C’era tutto questo nella stanza prima che prendesse fuoco. Non conoscevo quella coppia prima di vederla morire. E una volta conosciuta posso dire che era stata sensata quella loro morte. Se raggiungiamo la consapevolezza di quanto sia facile far prendere fuoco a qualcosa piuttosto che il contrario, dovremmo imbarazzarci per tutte le forzature che mettiamo in pratica costantemente per sentire che non stiamo commettendo un errore ad essere qui, su questo mondo. Ma un corpo non è mai così vero più di quando sta bruciando, mentre sta diventando quello che sarebbe sempre dovuto essere. Cenere. Nulla. Le urla che la coppia produceva, le facce che si contorcevano mentre si squagliavano, le loro mani che, trasformate in torce, andavano cercandosi l’uno per scacciare il bruciare dell’altra. Tutto quello era solo uno spasmo involontario. Nient’altro. Spasmi involontari e pensieri inculcati a forza nelle nostre teste: noi non dobbiamo prendere a fuoco e dobbiamo incularci, sbatterci, farci inculare. Questi pensieri che ci insegnano fin da piccoli producono la paura. Quella coppia non ebbe più paura solo da morta[6].
Nel permanere inalterata rispetto alla sua quantità complessiva, la materia del cosmo muta a ogni istante. Muta di una trasformazione perpetua che è la sua stessa cifra metafisica, nell’inevitabile direzione di un disordine(il fuoco) che, come mette in luce il principio fisico dell’entropia, non soltanto è probabilisticamente più realistico dell’ordine, ma è ontologicamente più vero. «Mutamento e movimento costituiscono infatti la regola, non l’eccezione»[7]. Se ci fermassimo a riflettere su quanto remota doveva essere la probabilità che quello spermatozoo riuscisse a raggiungere e fecondare quella cellula uovo, forse ci renderemmo meglio conto di quanto fortuita e improbabile la nostra presenza su questo mondo effettivamente sia, o – per dirla con le parole di David Benatar – di quanto «one’s having come into existence is really bad luck»[8]. Infatti, «it is bad enough when one suffers some harm. It is worse still when the chances of having been harmed are very remote»[9].
Già dal primo episodio, e nei successivi ancor di più, l’eco della parola antinatalista di Schopenhauer e Benatar in particolare pare difatti riverberarsi con forza non già, banalmente, nelle dense lettere lasciate dall’assassino, ma in Vitello, nel suo capo Antonio, in sua figlia Ambra e, ancora, in ogni singola scelta stilistica della Produzione: in «quegli sprazzi di America Latina che potrebbero sembrare il Nevada, o un certo Midwest e un certo Bayou del Mississippi, e invece siamo sempre e comunque a 50 chilometri da Roma o giù di lì»[10], in locations scarne, cupe, disturbanti, nelle ampie praterie di un’Italia “deitalianizzata” fino al surreale, in un’ambientazione del tutto inverosimile eppure vicina a ognuno di noi[11], spettro di una marginalità che prima d’essere geografica è esistenziale. Tutto in Dostoevskij, dall’“anacronistica” pellicola da 16mm all’esposizione bassissima della camera, dall’uso della fotografia al rifiuto del cavalletto in luogo della macchina a spalla, pare suggerire questo: la «nullità di ogni ente per ciò che è e per come è»[12]. Ogni cosa, l’esistente che io sono, l’albero su cui dà la finestra di casa mia, il mio cane, il computer che mi sta dinanzi in questo momento, ogni cosa non è infatti che «un lampo di essere dentro l’universale dominio del niente»[13].
In questa indagine di polizia che, minuto dopo minuto, si fa e cede il posto a una indagine dell’umano stare al mondo, la Morte, il Niente assurgono a richiamo, a trofeo da ‘guadagnare’: tutti i personaggi di Dostoevskij, in un modo o nell’altro, tendono verso uno stato altro da quello attuale. Uno stato che è per tutti lo stesso, la morte, e che una inettitudine che li accomuna sembra impedir loro di raggiungere. Dice il controverso capo di polizia Antonio Bonomolo (Federico Vanni) alla moglie Diana, mentre siede sul bordo di una piscina:
A: Penso alla profondità di questa vasca, se la profondità possa essere sufficiente per annegarmi. Forse sì, con un po’ di fatica. Capisci?
D: mh mh.
A: Ma profonda o no non importa perché tanto non riuscirei a uccidermi. C’è qualcosa in me di così irrimediabile che fa sì che io sopporti tutto questo. E questa cosa mi spegne. Uno spegnimento lento, che non fa rumore. Tra dieci minuti anch’io vorrò uscire da questa vasca, ce ne torneremo a casa e tutto sarà come sempre[14].
È questa la Stimmung dei personaggi creati dalla penna dei D’Innocenzo, il denominatore comune che nella loro pluralità e complessità li tiene insieme. «Per i più», scrive d’altronde Schopenhauer, «la vita non è che una lotta continua per l’esistenza, con la certezza di una disfatta finale. E ciò che dà loro tanta forza di perseverare in questo penoso conflitto non è tanto l’amore della vita, quanto la paura della morte, che tuttavia sta lì sullo sfondo, sempre pronta a farsi avanti»[15]. La morte non andrebbe cercata – concluderà Vitello –, eppure è da ognuno di loro più o meno segretamente desiderata. Un immotivato attaccamento alla vita, a «questa assurda malattia di vivere»[16] che ogni giorno esperiscono, li tiene nondimeno ancora qui, su questa “terra desolata” perennemente in bilico tra la tenebra del non-senso e la luce che a tale non-senso si sforza di dare un senso; senso che forse riposa proprio nel comprenderne fino in fondo, con spietatezza leopardiana, l’insensatezza.
È «el delito major», come scrive Calderón, «il peccato originale, la colpa di esistere»[17] che l’antieroe dei D’Innocenzo, un Enzo Vitello superlativamente incarnato da Filippo Timi, sconta quindi. Li sconta nel suo fallimento come uomo, come poliziotto e come padre; li sconta nell’aver perso la fiducia di tutti i suoi uomini e li sconta nel rapporto deteriore con la figlia abbandonata molti anni fa, di cui Carlotta Gamba ci offre un’interpretazione di raro spessore. Una drastica rassegnazione, che non è mai resa inerme bensì «chiara visione di cosa la specie umana sia, di quale sia il suo posto nel mondo e l’orizzonte verso cui tende»[18], segna così quello che, su tutti, è forse (e, si direbbe, paradossalmente) il personaggio più vitale e più lucido.
La teoresi dell’“etereo” serial killer e quella del protagonista si fondono, arrivate a questo punto. È Vitello che legge una lettera scritta da Dostoevskij o è Vitello che medita tra sé e sé? Non è importante e, anche se lo fosse, non farebbe ormai differenza alcuna.
Se si volesse seriamente parlare di qualsiasi cosa, si dovrebbe iniziare con queste due parole: dolore e numeri. L’aspettativa media di vita di un uomo occidentale oggi è di 82 anni: 29.930 giorni di dolore; 718.000 ore di sofferenza, di finta, di recita. Ogni sorriso smorfia. Ogni ricordo rimpianto. Ogni speranza illusione. Ogni notte una finta promessa. La tortura, l’oscurità, l’oscenità.
Ai bambini andrebbe detto fin da subito: ci siamo sbagliati a farvi, a mettervi su questo tavolo, su questo incubo costante. Andrebbe subito chiarito: cercavamo soltanto qualcuno che potesse prendersi l’orrore al posto nostro[19].
Per quel che il bien penser ne possa opinare, è a rigore impossibile – su questo l’assassino/Vitello è risoluto – mettere al mondo degli esistenti per il loro stesso interesse. È al contrario doveroso, oltre che coerente, dato che la sofferenza intride ontologicamente ogni esistenza, non metterli al mondo proprio per loro tutela e così lasciarli essere quel che sempre sono stati e sarebbero «sempre dovuti essere: cenere, nulla». “Giocare” a procreare è dunque, per tutti gli esseri viventi, «[to] play Russian roulette with a fully loaded gun – aimed, of course, not at their own heads, but at those of their future offspring»[20]. Mettere al mondo dei figli è infatti, e mai potrà essere altrimenti, l’atto egoistico per eccellenza. È la ὕβρις: noncuranti, anzi sprezzanti del bene di chi tra poco diremo essere “la persona che amiamo più d’ogni altra cosa”, ci affanniamo giorno dopo giorno nel convincerci che, nonostante tutto, stare al mondo è sempre e comunque un bene e così lo sarà anche per la nostra creatura. Non potrebbe forse essere proprio l’impulso perenne a ‘realizzarsi’ (lavorativamente, sentimentalmente, eccetera) che avvertiamo a noi così connaturato a tradire, invece, un bisogno ben più urgente e profondo, così terribile da necessitare di essere costantemente sublimato? Il bisogno, cioè, di redimerci dal male che ci è stato inflitto quel giorno in cui non per voler nostro siamo stati consegnati a questo mondo, a questa esistenza?
Disvelata fino in fondo e con coraggio una così atroce verità, nessuno può più fuggirvi se non «mediante una violenza dolorosa, che l’individuo fa a se stesso. Ma una volta che ciò sia accaduto, la coscienza ritroverà quella noncuranza e quella serenità dell’esistenza puramente individuale, che avranno allora anche una maggiore potenza»[21]. Non è l’annullamento dell’esistenza, allora, quello che cerca Vitello; non è questo il male che egli vuole segretamente infliggere a se stesso: è la noluntas schopenhaueriana che il suo viaggio/indagine interiore aspira a raggiungere, il distacco dal mondo e da tutte le sue gioie e i suoi dolori come distacco dal desiderare, dal desiderare di vivere, così da poter finalmente contemplare quell’oscurità che è la sola, vera realtà. La Cenere. Il Nulla.
Diversamente da True Detective, per i personaggi di Dostoevskij non si dà alcuna speranza gnostica in una redenzione dal male di vivere, alcuna possibilità di ‘luce’[22]. Luce è, semmai, la presa d’atto che altro non siamo se non Buio, che
La morte non andrebbe cercata. È qualcosa che circonda ogni nostro gesto. Ogni nostro pensiero. Ogni nostro errore. Ogni nostra cosiddetta mossa giusta.
Enzo Vitello, si chiamava. Voleva me o voleva la morte. Ha trovato entrambi e credo sia stata una doppia delusione. L’ho gettato in un fiume. L’acqua non è pura, l’acqua non è nemmeno sporca. L’acqua è solo qualcosa che va in avanti senza sosta e senza sapere il perché, come facciamo noi ma producendo un rumore meno disturbante. Ho scelto un fiume perché ero in ascolto[23].
È nell’ascolto del fluire eracliteo dell’acqua, nell’ascolto dell’ἀλήθεια che si spegne la vita di Enzo Vitello. È la comprensione del divenire dell’essere, del divenire che è l’essere, nella travolgente “flussicità” e dirompente irreversibilità che lo rendono a noi vivo. Al runner che incontra nei campi all’indomani della colluttazione finale con il killer, il quale gli chiede dove sia diretto, Enzo risponde: «Dritto»[24]. Nella sola e univoca direzione dell’essere-tempo, dello Zeitraum.
Ed è nell’ascolto dello scorrere di un fiume che si esaurisce l’ultimo, criptico e solo apparentemente insignificante, dialogo dell’opera:
ANTONIO: Ci sono molti professionisti impegnati nella ricerca del corpo di tuo padre, ma due persone in più in fondo male non possono fare.
AMBRA: Io non ci capisco niente di queste cose, ma come cazzo si fa a non trovare un corpo buttato in un fiume?
AN: Tempo ce ne vuole sempre. Non possiamo essere sicuri di nulla al 100% e quindi stiamo cercando un po’ dappertutto… Ma capisco se ti sembra un sacco di tempo. Anche a me sembra un sacco di tempo.
AM: I fiumi sono lunghi, sarà per questo.
AN: Forse.
AM: Sono lunghi e hanno tanta acqua.
AN: Questo sicuramente[25].
L’indagine investigativa ed esistenziale di Enzo Vitello è un viaggio alla ricerca del senso, non della vita ma dell’Essere. E l’insistenza dell’ultimo episodio sull’elemento liquido ne è, a mio avviso, la prova: Enzo quel senso l’ha disoccultato, alla fine, e interiorizzato in tutta la sua drammaticità. La sua nauseabonda, insignificante, transeunte esistenza può ora, stoicamente, anche concludersi.
La Daseinsanalytik dei fratelli D’Innocenzo, che «in Dostoesvkij è motivo narrativo (l’indagine poliziesca) e motivo antropologico»[26], non ha paura di confrontarsi con tale realtà: con l’indisponibilità dell’umano abitare il mondo, con tutto l’orrore che questo porta con sé, con l’ignoto, con l’ineffabile che ci è vicino. È anche in ordine a ciò che lo spettatore è chiamato a fare i conti con un’opera all’apparenza ostica, dai ritmi lenti e pausati, dai dialoghi magri ed essenziali, sovente poco verosimili, dalle inquadrature ‘sporche’ e inaccurate nella loro straordinaria accuratezza: come in tutte le produzioni dei registi di Favolacce, il plot qui costituisce tout court il punto di partenza di ogni scelta stilistica, linguistica, formale. «La lentezza di Dostoevskij è quindi parte di tutto quel processo di spoliazione, riduzione ai minimi termini, sottrazione di qualunque abbellimento che rendono, questo prodotto, più nero del noir»[27]. Per questo motivo, come osserva Carlo Giuliano, sarebbe a dir vero scorretto riferirsi a Dostoevskij come a qualcosa di “bello”: perché Dostoevskij non vuole essere bello; anzi terribile, squallido, rivoltante, marcio come i suoi personaggi, come la storia che inscena, come il dramma che la vita senziente è.
È tuttavia corretto ipotizzare che un progetto di una tale densità teoretica sia stato pensato esattamente alla stessa maniera dalla rara maestria dei Fratelli? Per la verità, rispondere di sì – nonostante, come ho tentato di mettere in luce in questo contributo, certe ispirazioni risultino di difficile messa in discussione – traviserebbe probabilmente il senso stesso di Dostoevskij. Il cinema e, in generale, la filosofia dei D’Innocenzo ricercano infatti perlopiù l’estemporaneo, l’“intuizione pura” nella banalità del quotidiano. È, allo stesso modo del Rust di True Detective, «una filosofia quindi che tracima dall’esperienza diretta del negativo del mondo, del suo orrore e del suo nulla, che se rettamente compreso dovrebbe salvare la circostanza esistenziale e rendere la vita qualcosa di dignitoso e sensato»[28], quella dei D’Innocenzo.
Non è insomma il concetto, nel cinema dei Fratelli, a precedere il ‘modo di esprimerlo’: al contrario, è proprio dall’esperienza diretta della gratuità e dell’insignificanza dell’esserci umano che qui emana la riflessività[29]. Il concetto vi si dispiega. Il reale, con tutta la sua brutalità, è nella regia dei D’Innocenzo come la ‘messa in opera’ dell’ideale, ancorché in un modo assai diverso da quello della teleologia dello Spirito idealistico; è il luogo ove l’Ereignis è chiamato a eventuarsi. Una regia dell’ascolto, quindi: dell’ascolto dell’Essere.
[1] F. Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo (Записки из подполья, 1864), intr. di A. Moravia, trad. di M. Martinelli, BUR Rizzoli, Milano 2023, p. 148.
[2] C. Giuliano, Dostoevskij, recensione: i D’Innocenzo hanno ridefinito il noir, in https://www.ciakclub.it/dostoevskij-recensione-i-dinnocenzo-hanno-ridefinito-il-noir/, consultato il 08/12/2024. Per una cognizione globale (anche tecnica) dell’opera e del suo impatto sul cinema contemporaneo, sui quali qui non mi soffermerò, rinvio all’intera recensione di Giuliano, tra le più ricche che mi è sembrato di leggere in rete.
[3] D. D’Innocenzo, F. D’Innocenzo, Dostoevskij, Italia 2024, ep. 1: Dostoevskij.
[4] F. Nietzsche, Umano, troppo umano I (Menschliches, Allzumenschliches, Ein Buch für freie Geister, 1878), nota introduttiva di M. Montinari, trad. di S. Giametta, Adelphi Edizioni, Milano 1997, p. 169.
[5] Mi sento di ritenere la conoscenza della prima stagione di questa serie e in particolar modo del personaggio interpretato dal premio Oscar Matthew McConaughey imprescindibile per un’adeguata comprensione della filosofia di Dostoevskij. Tra la ricca letteratura riscontrabile in lingua italiana e straniera, mi limito a segnalare E. Palma, Il cielo stellate del bene. La metafisica del negativo in ‘True Detective’, in «Dialoghi mediterranei», XI, n. 67/2024, pp. 528-536.
[6] D. D’Innocenzo, F. D’Innocenzo, Dostoevskij, cit., ep. 1: Dostoevskij. I corsivi sono miei.
[7] A.G. Biuso, Tempo e materia. Una metafisica, Leo S. Olschki Editore, Firenze 2020, p. 60.
[8] D. Benatar, Better Never to Have Been. The Harm of Coming into Existence, Oxford University Press, Oxford 2006, p. 7.
[9] Ibidem. Come studio generale sull’antinatalismo “analitico” del filosofo sudafricano, si consideri S. Dierna, ‘È il nascere che non ci voleva’. Introduzione a David Benatar, in «Vita pensata», XII, n. 26/2022, pp. 32-38.
[10] C. Giuliano, Dostoevskij, recensione: i D’Innocenzo hanno ridefinito il noir, cit.
[11] Sulla ricerca straordinaria che i D’Innocenzo hanno condotto per le ambientazioni di Dostoevskij, cfr. S. Gucciardo, La geografia del dettaglio in Dostoevskij: D’Innocenzo e Moresco, in https://artesettima.it/2024/12/01/la-geografia-del-dettaglio-in-dostoevskij-dinnocenzo-e-moresco/, consultato il 08/12/2024.
[12] A.G. Biuso, Chronos. Scritti di storia della filosofia, Mimesis, Milano-Udine 2023, p. 150.
[13] Ibidem.
[14] D. D’Innocenzo, F. D’Innocenzo, Dostoevskij, cit., ep. 5: Mai vista stagione peggiore.
[15] A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione (Die Welt als Wille und Vorstellung, 1819), a cura di A. Vigliani, intr. di G. Vattimo, Mondadori (ed. “I Meridiani”), Milano 2007, §57, p. 443.
[16] D. D’Innocenzo, F. D’Innocenzo, Dostoevskij, cit., ep. 2: La città dei figli sbagliati.
[17] A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., §51, p. 368.
[18] A.G. Biuso, S. Dierna, Antinatalismo: storia e significato di una filosofia radicale, in «Dialoghi mediterranei», X, n. 64/2023, p. 62.
[19] D. D’Innocenzo, F. D’Innocenzo, Dostoevskij, cit., ep. 2: La città dei figli sbagliati.
[20] D. Benatar, Better Never to Have Been. The Harm of Coming into Existence, cit., p. 92. Sulla effettiva (e molto discussa) filantropia di tale sistema, cfr. ivi, pp. 223-225. Scrivono nuovamente al proposito Biuso e Dierna: «La sofferenza ci appartiene. È una verità che difficilmente si potrà negare. Ciascuno vive poi questo dolore a modo proprio, con maggiore o minore intensità, dando più o meno peso agli eventi che accadono. Nessuno ne rimane però esente. L’unica strategia per evitare di soffrire consiste nell’evitare di stare al mondo (Risk Argument)» (A.G. Biuso, S. Dierna, Antinatalismo: storia e significato di una filosofia radicale, cit., p. 67). Sullo stesso argomento, infine, interessante anche il contributo di Häyry, cui rimando per un confronto tra più posizioni differenti sulle principali questioni antinatalistiche contemporanee e non solo: M. Häyry, If You Must Give Them a Gift, Then Give Them the Gift of Nonexistence, in «Cambridge Quarterly of Healthcare Ethics», vol. 33/2024, n. 1, pp. 48-59.
[21] A. Schopenhauer, Metafisica dell’amore sessuale (Metaphysik der Geschlechtsliebe, 1844), a cura di A. Verrecchia, BUR Rizzoli, Milano 1992, p. 125.
[22] «Il nulla tallona l’essere e infine lo riassorbe in sé», osserva infatti Roberto Mancini. «Quindi lo scandalo metafisico per eccellenza non è il nichilismo, ma è la fiducia nella possibilità della vita salvata, dunque nella salvezza intesa come liberazione universale e definitiva da ogni male, anche dalla morte» (R. Mancini, La finitezza come apertura. Ripensare la vita oltre il nichilismo, in P. Amato, A.G. Biuso, V. Bochicchio, M.T. Catena, F. Masi, V. Pinto, N. Russo, S. Venezia [a cura di], Metafisica dell’immanenza. Scritti per Eugenio Mazzarella, Vol. I: Ontologia e storia, Mimesis, Milano-Udine 202, p. 217).
[23] D. D’Innocenzo, F. D’Innocenzo, Dostoevskij, cit., ep. 6: Non siate crudeli con un finale.
[24] È significativo che la risposta «Avanti» o «Dritto» alla domanda circa la destinazione verso cui l’interessato stia dirigendosi compaia in almeno altre due interazioni oltre quella citata; il che mi lascia supporre una voluta enfasi della scrittura sul carattere di finitudine e unidirezionalità della Zeitlichkeit vissuta.
[25] Ibidem.
[26] S. Gucciardo, La geografia del dettaglio in Dostoevskij: D’Innocenzo e Moresco, cit.
[27] C. Giuliano, Dostoevskij, recensione: i D’Innocenzo hanno ridefinito il noir, cit.
[28] E. Palma, Il cielo stellato del bene. La metafisica del negativo in ‘True Detective’, cit., p. 529.
[29] Devo quasi per intero queste ultime considerazioni al confronto sempre fecondo con l’amico e studioso di cinema Roberto Zinna.