«Verrà Dike».Sull’Elettra di Sofocle

di Stefano Piazzese

 Coraggio, coraggio, figlia, | ancora grande è nel cielo | Zeus che tutto vede e governa; | affida a lui il doloroso rancore, | e non odiare troppo | i tuoi nemici, ma non dimenticarli. | Il tempo è un dio che tutto agevola.

Soph., El., vv. 173-179[1]

L’Elettra di Sofocle è un dramma sociale, sostiene Dunn[2], che va ben al di là delle dicotomiche interpretazioni che polarizzano, in termini o totalmente positivi o negativi, la posizione di Sofocle nei confronti degli omicidi così come emerge dalla tragedia. Poniamo la seguente domanda: Sofocle sostiene o mette in discussione la giustizia degli omicidi? Dunn risponde che il tragediografo supera «il problema sociale e religioso della giustizia (che Euripide trasforma in problema etico) con un problema interamente nuovo, di suo conio»[3]. Difatti, stando al testo della tragedia, quella che Aristotele chiama δέσις (legare insieme) ossia l’intreccio tragico non è chiaramente risolto attraverso la λύσις. In effetti, stando così le cose è mantenuto saldo il fondamento della tragedia, il tragico, ovvero il permanere delle cose all’interno di una tensione irrisolta, che parimenti può svelare molteplici scenari etici, politici, esistenziali ribaltando finanche le narrazioni e conclusioni che possono apparire più sensate. Goethe ci ricorda che «ogni tragico si fonda su una opposizione non ricomponibile. Non appena tale composizione si profila, o diviene possibile, il tragico vien meno»[4].

Vanno subito fatte due precisazioni: al contrario di Eschilo, per Sofocle il matricidio non costituisce un elemento dominante; la tragedia si chiude prima che la vendetta sia pienamente realizzata. Al centro della tragedia, sull’acropoli di Micene, dinanzi alla reggia degli Atridi, vi è Elettra presso la porta del palazzo (vv. 313, p. 37; v. 818, p. 77), sul confine tra interno ed esterno, tra οἶκος e πόλις, sicché la soglia acquisisce particolare rilevanza, stando alla semantica degli spazi della tragedia. Cosa significa stare sulla soglia? Significa innanzitutto soffermarsi in una zona di transito, di impermanenza che in particolar modo nella tragedia sofoclea assume un connotato politico ben preciso: la vendetta che attraversa tutta la trama intricata della saga degli Atridi non riguarda una sola famiglia, un solo γένος ma l’intera comunità. La tragedia è tale se in nessun momento viene fatta venire meno la sua vocazione preminentemente politica.

1. Dissidio tragico tra ἀβουλία e φρόνησις

 Elettra è figura della sete di vendetta che non si può placare, dell’attesa, dell’odio viscerale, dell’ira che tutto travolge; il suo posto è nella casa dei Pelopidi, «carica di stragi» (v. 10, p. 13). Una volta arrivato a Micene, Oreste ordina che venga annunziata la propria morte per ingannare la madre ed Egisto affinché finalmente la propria vendetta trovi compimento sperato «secondo giustizia sospinto dagli dèi» (v. 70, p. 17); egli attende il καιρὸς (v. 75) per agire e diventare padrone della propria ricchezza, restauratore della propria casa (v. 72, p. 19). A partire da questo incipit la tragedia si configura come un perpetuo richiamo all’azione – τὸ δρᾶν[5] (v. 467) –, e nella tragedia all’agire consegue sempre il patire.

Ricevuto il triste annuncio della morte di Oreste, Elettra intona il θρῆνος (v. 88, p. 19) poiché piegata dal dolore (λύπη) (v. 120, p. 21) e il Coro le rivolge la domanda: «Perché desideri soffrire?» (v. 144, p. 25), ovvero: “per quale ragione vuoi perseguire il tuo disegno di vendetta e aggiungere, così, al dolore altro dolore”. Affinché ci sia il tragico non basta che il vindice sia nel proprio diritto per attuare la vendetta senza andare incontro ad altre conseguenze. In merito a questo aspetto, Sofocle mantiene salda la celebre lezione tragica di Eschilo che troviamo in Coefore al v. 461: «Ἄρης Ἄρει ξυμβαλεῖ, Δίκᾳ Δίκα», «Ares contro Ares, Dike contro Dike».

Il Coro invita Elettra, che non ha alcun dubbio sulla giustizia della propria vendetta[6], alla sopportazione: «Troppi mali ti sei procurata | generando col tuo malumore sempre | guerre; non puoi contestare | queste cose ai potenti, sopportale» (vv. 215-220, p. 31); ma se da un lato esercitare la sopportazione vuol dire corrispondere alla prudenza che le circostanze avverse richiedono, dall’altra c’è il rischio che l’eccessiva prudenza diventi viltà, caratteristica di chi non ha il coraggio e la determinazione di compiere la vendetta, di fare (farsi) giustizia. Ma, come accade sempre nella tragedia, le cose non sono affatto semplici o risolvibili attraverso narrazioni unilaterali.

Elettra è consapevole che andando avanti nel proposito di vendetta non porrà freno alla propria ἄτη[7] (v. 224), sicché il Coro la prega più volte di placare parzialmente l’ira, di «non generare dai mali altro male» (v. 235, p. 31). Qui emerge un aspetto straordinario di Elettra, ossia la consapevolezza: ella è consapevole che è βία (v. 256), violenza, a guidare la sua azione e si giustifica alla luce del proprio vissuto: «Mie care, in tali circostanze non mi è possibile avere prudenza | né pietà; vivendo in mezzo ai mali, | è giocoforza praticare il male» (vv. 307-309, p. 37). Al v. 309 troviamo la potente connessione tra ἀνάγκη e κακόν: piomba il male sulla vita umana, piomba necessità. Impossibile avere φρόνησις, esercitarla in mezzo al male. Anche la sorella la invita a placare il suo furore (vv. 328-340, p. 39), ma tale posizione è giudicata da Elettra foriera di δειλία (vv. 351, 1027), di viltà, e di ἀτιμία (v. 1035), priva di onore. Qui il grande monito di Crisotemi: questo è il momento di usare il senno, φρονεῖν (v. 384), questo è il momento in cui bisogna εἰκαθεῖν (v. 396), «cedere ai potenti» (p. 43), ma non a motivo della ἀβουλία (v. 398; ignoranza, imprudenza, stoltezza) tipica dell’azione inconsiderata messa in atto da chi è priva di senno, bensì della prudenza di chi al male non vuole aggiungere altri mali.

La tragedia inizialmente si caratterizza come uno scontro tra ἀβουλία e φρόνησις, aspetto deducibile anche dalle parole che sempre Crisotemi rivolge più avanti a Elettra[8]: «dammi ascolto, non cadere per la tua stoltezza, | perché se ora mi respingi, nella sventura tornerai a cercarmi» (vv. 429-430, p. 47). Anche il Coro rafforza i termini del dissidio, difatti al v. 990 afferma che in questa situazione la prudenza (προμηθία) è alleata (σύμμαχος). Infine, lo scontro tra ἀβουλία e φρόνησις ha un risvolto concettuale nell’ultimo invito di Crisotemi alla sorella: «κατάσχες ὀργήν» (v. 1011), frena la tua ὀργή, la tua ira. All’infervorarsi della tensione tragica e i due poli dello scontro che animano la tragedia divengono ὀργή (v. 1011) e νοῦς σωφός (v. 1016), ira e mente saggia, prudente, scaltra laddove questi attributi, va precisato, sono sempre funzionali alla realizzazione della vendetta: «non c’è per gli uomini | maggior guadagno della previdenza e d’una mente saggia» (vv. 1015-1016, p. 91). La ὀργή rende Elettra vittima del proprio male (v. 1040, p. 93), di un odio antico (v. 1311, p. 117), quel male οὔ ποτε καταλύσιμον (v. 1247), senza soluzione, non rimediabile, ed ella, seppur è nel proprio diritto, non sa che anche la giustizia può recare danno. Sarà Crisotemi a declamare l’isostenia tragica, ossia il dissidio in forza del quale quella che leggiamo è una tragedia, e non un inno sconsiderato alla ὀργή, alla vendetta, alla furia: «Ἀλλ’ ἔστιν ἔνθα χἠ δίκη βλάβην φέρει» (v. 1042).

2. C’è un μέτρον al male?

 A fare da sfondo attraversando tutti i versi dell’opera sofoclea, e dunque anche il dissidio tra i concetti appena esposti, è la grande domanda filosofica della tragedia posta da Elettra: «Καὶ τί μέτρον κακότατος ἔφυ;» (v. 235, p. 31), c’è un μέτρον al male dacché δίκη esige sangue per sangue? La filosofia di Sofocle problematizza l’assunto del tragico eschileo e la formulazione di questa domanda posta all’inizio della tragedia ha lo scopo di trasmettere al lettore-spettatore tutto il carico spaesante della tragedia, ma pure, e di certo non in ultima istanza, la necessaria tensione etica che attraversa i tragici e senza la quale non si comprende la tragedia. E dunque: come agire di fronte al male? Come convivere con esso? Com’è possibile affrontare l’esistenza con la consapevolezza che non c’è rimedio al male? Quali scenari si configureranno se davvero δίκη è contro δίκη? Il maturo pensiero di Sofocle è sempre alla πόλις che volge il proprio sguardo teoretico: certamente non la viltà, ma neppure l’irrefrenabile violenza può avere l’ultima parola.

La presenza degli dèi aleggia nella σκηνή tragica: Ade, Persefone, Ermes sotterraneo, maledizione sovrana ed Erinni venerande (vv. 110-112, p. 21), Zeus, Iti, Niobe (148-149b, p. 25), Apollo Liceo (v 655, p. 63), Nemesi (v. 792, p. 75), Ares (v. 1385, p. 123). Gli dèi sono a testimoniare quanto afferma il Precettore: «ma quando un dio | vuol nuocere, nessuno, anche se è forte, può sfuggirgli» (vv. 696-697, p. 67). Un particolare degno di nota è la vicinanza declamata dal Coro tra Zeus e Χρόνος: se al primo bisogna affidare il doloroso rancore (v. 176, p. 27), il secondo, Χρόνος (v. 179), è il dio che agevolerà l’impresa di Oreste. È un tema sofocleo, questo, molto originale e ricorrente anche nell’Edipo a Colono: solo la sovranità del tempo permetterà il compimento di ciò che va fatto e consentirà il configurarsi di nuovi scenari.

La risposta della tragedia alla domanda di Elettra è disincantata, truce e traboccante di consapevolezza: non c’è una misura al male e se «morire è il destino di tutti i mortali» (v. 860, p. 81), è vero che i morti determinano la vita dei vivi, di coloro sui quali non è ancora sceso il sonno della morte. A testimoniare l’ancestrale legame tra la morte e la vita vi sono le offerte votive sulla tomba di Agamennone – rivoli di latte colate, fiori e un ricciolo appena reciso (vv. 894-901, p. 83) – che suscitano l’entusiasmo delle due sorelle, entusiasmo tutto rivolto alla gioia della vendetta che potrà avvenire finalmente per mano di Oreste. Crisotemi, prudente e accusata di viltà, di eccessiva moderazione, nell’annunziare a Elettra ciò che ha visto presso la tomba del padre esprime il nucleo originario di ira e odio, che risiede nella risorta speranza della vendetta veniente, condiviso con la sorella al di là della iniziale posizione divergente: «Coraggio, cara, non governa sempre | lo stesso potere divino le stesse persone: | un tempo, esso fu per noi odioso, ma ora | forse questo giorno sarà decisamente l’inizio di molte splendide cose» (vv. 916-919, p. 85). In Oreste il vindice Elettra saluta e accoglie la diletta luce del giorno, della salvezza, della vittoria «Ὦ φίλτατον φῶς» (v. 1223, p. 109). I morti vivono tra i vivi[9]: «Vivono quelli | che sotterra giacciono, | quelli che da tempo sono morti prendono in compenso | il sangue di coloro che li uccisero» (vv. 1417-1420, p. 125). È una spirale di vendetta senza redenzione possibile, senza salvezza, che tuttavia ha in sé una luce che pertiene al tragico, ma per contemplare la luce del tragico e coglierne la complessità bisogna uscire dal coacervo di approssimazioni infondate, ben decostruito da Jaspers, secondo cui il tragico che risiede nella tragedia sarebbe il trionfo del negativo, ovvero di eventi che per il loro carico perturbante definiremmo banalmente “tragedie”. Nel tragico sofocleo, come pure in Eschilo e in Euripide, c’è sempre un orizzonte di senso sapientemente delineato entro il quale prende forma la filigrana della narrazione: il nichilismo non appartiene ai Greci. Certo, quello della tragedia è un orizzonte di senso messo in crisi, capovolto, scosso dai mutamenti della contingenza, segnato dalla lacerazione ontologica ed esistenziale; e nella tragedia emerge certamente non come elemento di salvezza o redenzione totale, sia chiaro, ma quale possibile e problematica strada da percorrere nonostante non vi sia μέτρον al male, nonostante il dolore.

E tuttavia dal dolore viene l’assennata esperienza, così, anche di fronte al male radicale esperito, sentito e patito, un’invocazione lancinante si fa strada, un grido che assieme alla vendetta, consapevole che sangue chiama sangue, invoca giustizia, ossia un principio che sta al di là delle prospettive scontrantesi nella tragedia: il pensatore tragico sa che ogni giustizia umana è parziale e dunque mai potrà restaurare l’armonia che la vendetta ha eroso, mai potrà riparare il torto subìto, rimediare al torto causato. Il tempo e Δίκη rimangono le due uniche due realtà a cui appellarsi dato lo sconvolgimento generato dalla domanda “c’è un μέτρον al male?” e la relativa risposta che emerge dalla tragedia. L’Elettra di Sofocle ci permette di indagare una questione assai problematica e teoreticamente feconda della tragedia greca: l’ἔσχατον che in essa si mostra nascondendosi. Vi sono dei σήματα escatologici in Sofocle laddove si parla di morte, di destinazione ultima della vita umana e si affronta il senso della vita nella sua fragilità e precarietà di fronte all’evento che mette in crisi la forma. Quale fine, quale ἔσχατον l’esistere? Quale forma può avere l’esistenza di fronte alla consapevolezza che non c’è misura al male? Elettra incarna queste drammatiche domande tutte contenute nella sua domanda. La sua ira, la consapevolezza della sua ἄτη, la sua certezza del beneplacito di δίκη alla volontà di vendetta, il suo dolore e la sua solitudine ci interrogano ferocemente sul senso della nostra esistenza e sul dramma sociale in cui siamo immersi. Elettra, ancora, parla della fragilità umana, la cui vita può assumere senso anche nell’odio, nell’impeto irrefrenabile dell’ira che senza dubbio, secondo la sapienza tragica, non può che generare altri mali. Che fare allora di fronte a questo abisso di senso? Quale luce può accendere una speranza che non sia un banale sperare in ‘qualcosa’, ma uno stare di fronte alla vita e di re anche dopo la tempesta più devastante che ha capovolto la nostra esistenza? Sapendo che gli dèi oggi tolgono, ma domani possono anche dare, è possibile che vi sia altro oltre al dolore, ossia il nuovo che rende la vita degna di essere vissuta[10].

Il Coro ammonisce: «verrà Dike che a noi mandò il presagio | portando nelle mani | potere di giustizia» (vv. 475-477, p. 49), la stessa giustizia che è «πολύπους καὶ πολύχειρ» (vv. 488-489), dai molti piedi e dalle molte mani, e le Erinni χαλκόπους (v. 491), dal bronzeo piede. Δίκη verrà a punire «il doloroso oltraggio», «πολύπονος αἰκία» (v. 515, p. 52). Tutta la tragedia è percorsa da questa invocazione, da questo grido di salvezza. Grido di salvezza condiviso, se diamo uno sguardo più ampio, da tutti i personaggi tragici principali. Va notato che, posto il dissidio tragico nella forma della filosofia eschilea a cui si è accennato, anche Clitemnestra[11] fa riferimento a Δίκη per quanto concerne la responsabilità dell’omicidio del marito fino ad affermare che fu proprio Δίκη a uccidere Agamennone (v. 528, p. 53). Se è vero che la caratteristica di Clitemnestra, come si evince dalle parole di Elettra, è la spudoratezza (vv. 275, 607), va considerato che ella dopo aver bramato la morte di Oreste afferma senza alcun indugio: «Terribile cosa essere madre! Neppure chi è offesa | potrà mai odiare quelli a cui ha dato la vita» (vv. 770-771, p. 73). Nella tragedia non è possibile tracciare delle linee nette che consentano di definire in modo univoco una storia, un vissuto, e la filosofia di Sofocle nel porre l’isostenia tragica ricorda l’invocazione valida sia per chi commette l’ingiustizia che per chi l’ingiustizia la subisce: al culmine del dolore, dell’ira, della vendetta e sullo specchio del sangue versato verrà Δίκη.

 

 

In foto: P.-P. Prud’hon, La Justice et la Vengeance divine poursuivant le Crime, 1808 (Olio su tela. Museo del Louvre, Parigi).

[1] Per il riferimento bibliografico alla tragedia sofoclea si è adoperata qui l’abbreviazione del lessico Liddell-Scott-Jones con l’eccezione del nome Sofocle che qui è “Soph.”, seguito da El. (Electra). Per le citazioni dalla tragedia il lettore troverà tra parentesi nel testo il numero del verso seguito dal numero di pagina della seguente edizione critica in lingua italiana: Sofocle, Elettra, introduzione e commento di F. Dunn, testo critico a cura di L. Lomiento e traduzione di B. Gentili, «Fondazione Lorenzo Valla», Mondadori, Milano 2019.

[2] F. Dunn, Introduzione, in Sofocle, Elettra, cit., p. XI.

[3] Ivi, p. XV.

[4] Citato da P. Szondi, in Id., Saggio sul tragico (Versuch über das Tragische, 1961), trad. di G. Garelli, Abscondita, Milano 2019, p. 37.

[5] M. Cacciari, Il dramma di Elettra, cit., 2:12 sgg.: «Fondamentale è sapere, e sempre riconoscere, che il protagonista della tragedia è l’azione stessa, il δρᾶν, da cui viene il termine dramma, che in greco vuol dire fare; ma il fare che decide, il fare che rompe, il fare che spezza ogni continuità. Questo è il protagonista. Poi naturalmente gli eroi non sono burattini, incarnano tale necessità, la fanno propria, la vivono, la interrogano. Imparano da questa sofferenza. E tuttavia sempre agiscono azioni necessarie. Il protagonista è la necessità dell’azione, del dramma. […] Quello che conta è che questo personaggio reale incarna un fatto, un’azione necessaria, non derivante dalla disposizione psicologica del suo carattere. Ma il suo carattere incarna una necessità. E qui il fare necessario si colloca nel cuore stesso della tragedia, perché questa tragedia è un episodio della tragedia complessiva di un γένος, di una gente, degli Atridi, e questa tragedia impone, appunto, una serie di atti ai suoi protagonisti».

[6] Ivi, 4:00 sgg.: per quanto concerne invece la questione del dubbio nell’Elettra di Sofocle, dopo aver delineato la vicinanza e la distanza con l’Elettra di Euripide, Cacciari sostiene: «È necessario […] che ad azioni tremende succedano azioni tremende? […] Elettra, e qui la grandezza della sua figura, non ne dubita: sì, è necessario. Oreste […] fino a un certo punto dubita, ma […] c’è una battuta, c’è un passaggio rivelatore, quando è andato nella reggia, entra nella reggia e la sorella Elettra gli chiede: “hai fatto quello che è necessario tu faccia?”, cioè uccidere la madre, e Oreste dice: “καλῶς, bene, l’ho fatto bene, se καλῶς è il responso di Apollo. Ho agito bene se” – se: il dubbio – “se Apollo, che mi diceva di uccidere la madre è buono, se quel responso è buono”». Qui Cacciari cita il v. 221, «δεινοῖς ἠναγκάσθην, δεινοῖς·», e i vv. 1423-1425, «Ὀρέστα, πῶς κυρεῖτε; | ΟΡ. τἀν δόμοισι μὲν | καλῶς, Ἀπόλλων εἰ καλῶς ἐθέσπισεν.», facendo particolare riferimento a quel se (εἰ) del v. 1425.

[7] Ivi, 14:20: «La grandezza di questa Elettra di Sofocle è nel suo essere Niobe, impietrita nella sua attesa, nel suo pianto, nella sua sete di vendetta e nella sua ferma convinzione che il suo gesto, che la sua δίκη sia la δίκη che gli dèi vogliono. Anche se sempre assolutamente cosciente di essere furente, è assolutamente cosciente di compiere δεινὰ, cose tremende».

[8] Ivi, 16:04 sgg.: c’è «una differenza essenziale con un’altra eroina: Antigone. […] È un parallelo che Sofocle sottolinea più volte, fino alle minacce della pena che si accingono a predisporre per Elettra; Elettra è minacciata di essere sepolta viva, come Antigone; e in particolare nel rapporto tra le sorelle, il dialogo tra le sorelle ricalca perfettamente il dialogo tra […] Antigone e sua sorella. Anche se qui, la figura di Crisotemi è molto più stagliata che non quella della sorella di Antigone. Sia Antigone che Elettra sono figlie del padre, questo è il tratto comune, non sono figlie della madre. […] Entrambe hanno una vita che è legata al padre morto; quindi, entrambe hanno una vita che è indissolubilmente legata ai morti, ad Ade. Antigone dice: “mio Zeus è Ade, non conosco altro Zeus che Ade”. […] Ma soprattutto entrambe sono sole: la solitudine assoluta di entrambe. Nel suo dolore e nella sua attesa Elettra continua a definirsi μόνη, sola, è un motivo che ritorna di continuo, è sigillata nella sua solitudine».

[9] Ivi, 28:58 sgg.: «Possibile che dobbiamo arrenderci alla parola altissima tragica di Clitennestra “Δεινὸν τὸ τίκτειν”, “tremendo il generare”? Da tutta la tragedia, […] ma da Sofocle in primis, sorge questa invocazione che assume quasi il sapore del grido: […] verrà δίκη e mostrerà il suo volto unico, e la relazione con l’altro sarà finalmente di φιλία, di ospitalità. Vi è questa escatologia tragica, in tutta la tragedia greca preme questa prospettiva chiamiamola escatologica, e guai a non avvertirne il timbro. In Sofocle risuona altissimo e risuona altissimo nell’altro dramma […]: l’Edipo a Colono è tutto un’invocazione a una δίκη, per cui si cessi questa lotta tra varie giustizie, ognuna delle quali pretende di essere la sola vera. Questa è un’invocazione che nasce. Un passo straordinario dell’Elettra: “Se io non sono un profeta in delirio […] e saggiamente intendo, verrà δίκη, verrà δίκη che tutto prevede e apporterà giustizia con la sua mano potente”. È una speranza contro ogni speranza? […] Forse è il caso che ce lo chiediamo quando ascoltiamo i tragici. […] E forse qui, in questa invocazione tragica, dopo queste spietate tragedie, dopo questa rappresentazione cruda, realistica del δεινόν, del tremendo, dell’assolutamente tremendo: matricidio, parricidio, stragi rappresentate con assoluto realismo. […] Però, di fronte a questo si leva questa invocazione; è un’invocazione superata? […] è venuta questa δίκη? […] Ogni speranza ha un senso soltanto quando risulta dalla tragedia, perché se no sono cieche speranze, vuote speranze. Se io faccio chiacchere consolatorie sulla realtà poi è anche facile sperare. È difficile sperare dopo aver assistito alla tragedia, dopo aver vissuto la tragedia, […] perché ti sembra di essere lasciato senza speranza. […] Non sono affatto drammi disperati, sono tragedie, obbligano ad attraversare tutto lo spazio della tragedia per giungere sensatamente, fondatamente, a quell’invocazione, a quel grido di speranza: “verrà δίκη”. E dobbiamo conoscere la tragedia, percorrere la tragedia per giungere a questa speranza. Questa speranza non è spegnibile, ma perché abbia senso può venire soltanto dopo la tragedia. La tragedia ne arde sempre, nel pieno della sofferenza». Qui i riferimenti sono ai vv. 770, 474.

[10] Ivi, 25:14 sgg., qui la riflessione di Cacciari risponde alla domanda “meglio non generare?”: «È questo il senso della situazione tragica, proprio del tragico, che era stato già detto nel coro delle Coefore eschileo, che poi è all’origine di questo sviluppo drammatico del tema e ripreso in modo altrettanto grandioso nel coro dell’Elettra: […] se δίκη è contro δίκη, se ogni dio ha la sua giustizia, io sono condannato, servendo un dio, a essere perseguitato dall’altro. Ciò significa una cosa: […] che i morti uccidono i vivi, il morto esige che i vivi si uccidano. Il Coro dell’Elettra lo afferma in modo ancora più sublime che nelle Coefore. […] se vendetta chiama vendetta, se azioni tremende esigono azioni tremende vuol dire che il morto, chiamando vendetta, provocando vendetta, imponendo vendetta uccide il vivo. Se questa φύσις, se la natura è questa vuol dire che la natura è κακόν per i mortali. Allora meglio non essere nati, o se nati morire subito. […] Dice Clitemnestra: “Δεινὸν τὸ τίκτειν”, “tremendo il generare”, perché se questa è la situazione io genero coloro che […] saranno uccisi dai morti. […] Se la natura è matrigna perché essere madri? Per generare morti che vivono invocando la morte dei loro assassini? Questa è la domanda tragica». Il riferimento è sempre al v. 770. Cfr. supra nota 10.

[11] Ivi, 23:01: Elettra e Clitemnestra «non sono nemiche, sono affini, profondamente affini, pietrificate nella sete di vendetta oltre ogni desiderio di vita, ambe due. E nell’attesa […] Elettra addirittura dice: “attendo come una condannata a morte»” […] e alla fine c’è un verso che rivela tutto questo in modo chiarissimo, Elettra onora in sé il carattere della madre. Dice: “tu mi hai generato, da te ho ereditato l’arte dell’inganno e della vendetta”»; 11:45: «E in questa attesa in cui è fermamente convinta di compiere δίκη, ciò di compiere un’azione giusta; tuttavia, pur essendo convinta di compiere un’azione giusta […] riconosce anche che questa sua fermezza è intessuta di ira, di furia, ὀργή, furia. Anzi di più, dice: dike stessa invoca vendetta feroce. Se la stessa giustizia, ed è convinta di questo, invoca vendetta feroce, come potrebbe Elettra […] essere saggia? […] Come potrebbe comportarsi saggiamente? […] Come potrei essere, se devo compiere questa feroce vendetta, […] pietosa? essere saggia? È trasudante ira, tanto che Oreste sesso la deve calmare, per il buon esito dell’inganno».

 

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