di Roberto Spanò
Le mie ossa si decomporranno per prime.
Poche ore dopo la morte saranno rammollite e flaccide.
[…] Nel frattempo i miei muscoli si induriranno in un’impalcatura
di legno calcificato; la pelle si ispessirà, il cuoio mineralizzato perderà
il suo pigmento. Avrà inizio così la vita della mia statua.
[…] Le mie ossa sono il partito conservatore del mio corpo.[1]
1. Corpo e cultura: una genealogia della forma
Cos’è il corpo? È un semplice insieme di elementi biologici, il mero funzionamento meccanico di organi, cellule e tessuti? È tenuto vivo da uno spirito, da un’anima? Può considerarsi un oggetto politico e sociale? Il corpo non è un elemento dato una volta per tutte: prende forma nel corso della nostra vita e delle nostre relazioni; potremmo anche dire che siamo noi a modellarlo giorno per giorno, con le nostre scelte e con le richieste, sottaciute o imperiose, delle istituzioni e della società. Il nostro corpo ci appare sempre come qualcosa di essenziale, che non scegliamo alla nascita e che ci precede, un “livello zero” dell’esperienza. Tuttavia, questo corpo racchiude molteplici verità: il referto medico che leggiamo può sembrare oscuro e decifrabile solo dagli esperti, mentre il nostro sentire ci dice come stiamo e il nostro apparire restituisce agli altri un’immagine di noi. Nel corso dei millenni il corpo è diventato un oggetto di analisi continua, legittima, e in qualche modo, necessaria: natura e cultura si intrecciano inevitabilmente. Di conseguenza, i diversi usi del corpo sono al tempo stesso naturali – poiché resi possibili da meccanismi fisiologici – e sociali – in quanto arbitrari e convenzionali.
I pensatori del mondo greco-romano hanno spesso celebrato il corpo come espressione di armonia, bellezza e virtù civica: la cura di sé era parte integrante della formazione dell’individuo. Con l’avvento del cristianesimo, però, si assiste a una trasformazione simbolica radicale: da luogo della manifestazione della gloria terrena, il corpo diventa simbolo – e strumento – di caduta e peccato. Si afferma così una cultura della mortificazione, del pudore e della penitenza, in cui il corpo deve necessariamente essere sorvegliato, sottomesso e spiritualizzato. Ma questa nuova visione non priva il corpo del suo valore politico, anzi: il corpo del santo, del martire o del sovrano diventa segno del potere divino; quello del peccatore o dell’eretico è oggetto di punizione, esibizione, correzione. La cultura rinascimentale oppose due visioni del corpo: da un lato il corpo chiuso, armonioso e definito, della tradizione classica; dall’altro il corpo aperto e grottesco della tradizione carnevalesca. Ciò avvenne in seguito alla scoperta dei canoni estetici dell’arte classica che celebrano
un corpo perfettamente dotato, formato, rigorosamente delimitato, chiuso, mostrato dall’esterno, omogeneo ed espressivo nella sua individualità […]. Alla base di questa immagine sta la massa del corpo, individuale e rigorosamente delimitata, la sua facciata massiccia e cieca. La superficie cieca, la piattezza del corpo, acquistano un’importanza primaria come frontiera dell’individualità chiusa, che non si mescola con gli altri e col mondo. Tutti i segni che denotano l’incompiutezza e l’imperfezione di questo corpo sono scrupolosamente eliminati, così come lo sono tutte le manifestazioni esterne della sua vita all’interno.[2]
Questi due canoni porteranno a un confronto-scontro tra ceti sociali, tra gentiluomini e popolani, tra veri uomini e bruti effeminati.
2. Il corpo nella costruzione coloniale della razza
Con la colonizzazione dell’America si apre una nuova fase. La modernità ha avuto inizio con la costruzione di un sistema mondiale eurocentrico, capitalista e coloniale. Dal XVII secolo l’Europa occidentale elabora, formalmente e sistematicamente, un nuovo universo cognitivo, incentrato su una nuova prospettiva della conoscenza, definita come moderna e razionale. Protagonista del cambiamento fu la mutazione del vecchio modo dualista di guardare all’universo, che contribuì a cambiare i rapporti tra corpo e non-corpo(soggetto, spirito o ragione) e tra Europa e non-Europa. Dopo Descartes il corpo fu dimenticato come componente necessaria dell’idea di umano, divenne oggetto di studio di uno status inferiore: è solo il soggetto che conta in quanto protagonista del cogito, dato che soggetto, spirito e ragionenon sono altro che secolarizzazioni dell’anima.
Venendo al discorso coloniale, i rapporti tra europei e non-europei soffrirono di una sorta di alterazione cognitiva temporale: tutto ciò che non era europeo apparteneva al passato, in tal modo era possibile pensare a quei rapporti in una maniera evoluzionista. Senza questa “espulsione” del corpo dal regno dello spirito attraverso una sua “oggettivizzazione” sarebbe stato difficile elaborare una idea di razza con una base “scientifica” e “teorica”, come invece avvenne da lì ai secoli seguenti. Le “razze inferiori” sono inferiori in quanto oggetti di studio e di dominio/sfruttamento/discriminazione, non sono soggetti razionali. Era dunque possibile considerare tutti i popoli non-europei come il passato e si poterono collocare in una catena storica da primitivo a civilizzato, da irrazionale a razionale, da magico-mitico a scientifico.[3]
Durante la conquista delle Americhe, le differenze razziali tra europei (in primis spagnoli) e indios furono interpretate attraverso le lenti della teoria ippocratico-galenica, allora dominante nella medicina e nella filosofia naturale. Secondo questa teoria, il clima e l’ambiente determinavano fortemente il temperamento, la salute, il carattere e la morale dei popoli. Gli europei, che provenivano da un clima temperato, si consideravano equilibrati, superiori moralmente ma soprattutto civilizzati. Gli indios, nati in terre esotiche ma insalubri, a parere dei conquistatori, vengono descritti quasi sempre come deboli, primitivi, molli e non adatti ai lavori fisici più duri, per i quali si preferiranno gli schiavi provenienti dall’Africa. In questo modo le differenze tra i corpi alimentarono la giustificazione della conquista e del dominio coloniale, alimentando la costruzione di una gerarchia razziale che avrebbe segnato per secoli la storia del continente americano.
3. Corpi climatici, corpi alimentari: differenze e timori
Tutti i protagonisti della conquista delle Americhe si interrogarono sulle evidenti differenze corporee e comportamentali tra loro e i nativi. Anche Bartolomé de Las Casas, tra i critici più schietti della colonizzazione, non dubitò mai delle differenze che intercorrevano tra europei e amerindi, non solo nel comportamento, ma soprattutto nel corpo. Anche lui legge queste differenze attraverso il filtro della teoria umorale: gli Spagnoli erano irascibili e collerici, i corpi degli amerindi erano intrisi di umori flemmatici; ai suoi occhi queste differenze risultavano quasi sorprendenti, dal momento che spagnoli e amerindi discendevano, come tutti gli uomini, da un’unica razza, quella di Adamo ed Eva. Ma la spiegazione delle differenze corporali, per Las Casas, stava nella differenza di cibi dei quali gli amerindi si nutrivano: gli europei mangiavano pane di frumento e bevevano vino, mentre gli amerindi si nutrivano di erbe, radici e “cose della terra”. Questa alimentazione degli indios generava l’abbondanza di umori freddi, che ne caratterizzava dunque il corpo e il carattere docile.
I testi coloniali includono sempre lunghe e minuziose descrizioni fisiche dei popoli conquistati, e una grossa attenzione viene data all’alimentazione. Il cibo, più di ogni altro fattore, diventava un marcatore fondamentale di alterità: la dieta primitiva dei nativi giustificava la loro inferiorità fisica e morale, mentre quella europea era associata a civiltà e forza[4]. Anche l’ambiente veniva considerato causa determinante. Dai tempi di Ippocrate erano state tracciate connessioni tra l’ambiente in cui vivevano gli individui e il loro carattere, ma l’ambiente determinava anche l’aspetto fisico. Nel XVII secolo il sacerdote domenicano Gregorio García spiegava che la pelle scura degli etiopi era determinata dal caldo della zona torrida in cui vivevano, due secoli prima lo storico spagnolo Diego Rodríguez de Almela affermava che la carnagione era modellata dall’aria del luogo in cui si è cresciuti, e l’aria sconosciuta può far ammalare gli uomini. Il capitano Bernardo de Vargas Machuca avvertiva che il trasferimento in questo nuovo ambiente poteva portare a trasformazioni indesiderate; il cosmografo reale Juan López de Velasco, nel 1570 avvertì che vivere sotto stelle diverse e sotto un clima diverso avrebbe portato gli spagnoli a subire inevitabilmente dei cambiamenti nel colore e nella qualità delle loro persone. Non tutti gli scrittori coloniali erano d’accordo sul fatto che il clima del nuovo mondo fosse intrinsecamente cattivo, ma la maggior parte sospettava che fosse comunque malsano per gli europei. Tutti gli scrittori europei erano però anche d’accordo sul fatto che gli amerindi fossero migrati, in un lontano passato, nelle Americhe dal vecchio mondo, anche se non avevano ben capito da quale luogo e in che epoca. Secondo alcuni si trattava di tribù perdute di Israele, secondo altri erano discendenti dei Tartari, alcuni, viste anche le differenze tra i vari popoli, ritenevano che avessero origini diverse.[5]
Un’altra grande preoccupazione riguardava la perdita della barba: poiché a causa del clima gli amerindi non presentavano peluria sul viso, gli spagnoli temevano che l’esposizione prolungata a quel clima avrebbe causato la perdita delle loro barbe. Ciò era per loro terrificante, la barba era simbolo di virilità, era un dono di Dio per abbellire e adornare il volto maschile.[6] Gregorio García, domenicano spagnolo nato nella seconda metà del 1500, riguardo la paura della perdita delle caratteristiche razziali, scrive che è molto improbabile che i discendenti spagnoli del nuovo mondo perdano la barba, dal momento che hanno ereditato la tempra dei loro padri e dei loro nonni, e continuano ad alimentarsi di cibo spagnolo importato dalla madre patria (soprattutto agnello, pollo, tacchino, manzo, ma anche grano e vino). Tranne il tacchino, tutti gli altri alimenti non erano presenti nelle Americhe prima del 1492; secondo l’autore tutti i cibi che esistevano prima dell’arrivo degli europei, come manioca e patate dolci, erano di scarso valore. Proprio a causa di questo cibo inadeguato, insieme al clima malsano, gli indiani persero gradualmente il temperamento del vecchio mondo.[7]
L’umoralismo faceva parte del bagaglio culturale che i coloni portarono nelle Americhe, basti pensare che il primo professore di medicina dell’Università del Messico portò con sé più di cento testi di medicina quando viaggiò nelle colonie; i membri dell’amministrazione coloniale consultavano di continuo i medici: nel 1529 Diego Delgadillo, giudice della prima Audiencia, dopo un anno dal suo arrivo in Messico, fece eseguire dei salassi e delle purghe a tutti i suoi collaboratori: come ha osservato George Foster, i concetti umorali permeavano i presupposti non solo dei medici, ma di tutte le persone istruite e intellettuali. Le concezioni del corpo basate sulle teorie umorali erano ampiamente diffuse nella popolazione europea e creola e nelle regioni di frontiera tutti sapevano come somministrare i trattamenti di base.[8]
Europei e amerindi (secondo le teorie umorali) si differenziavano perché vivevano in regime di esercizio fisico diverso e, cosa fondamentale, perché mangiavano cibi diversi: gli scrittori spagnoli erano soliti contrapporre le due diete, se non fosse che quella degli “indiani” veniva omogeneizzata in un amalgama non ben definito di “abitudini caraibiche” da cui traevano le loro conclusioni sul carattere indigeno. Il protomedico Francisco Hernández scrisse che gli amerindi facilmente rinunciano alla carne, prediligendo delle tortillas con una salsa al peperoncino, a cui di solito aggiungevano la salsa di un frutto sconosciuto agli europei, il “tomamo” (pomodoro). Secondo i cronisti, gli abitanti del Guatemala erano in grado di resistere per una intera settimana cibandosi solo di poche tortillas secche, quelli del Cile con un po’ di mais, sale e peperoncini.[9]
Gli spagnoli erano molto preoccupati per i cambiamenti che potevano colpire il loro corpo nel Nuovo Mondo, dal momento che nella concezione umorale il corpo era poroso, vulnerabile all’influenza dei cibi sconosciuti, così come era soggetto alle forze astrologiche e climatiche.[10] Nei documenti coloniali sono documentati molti tentativi degli spagnoli di replicare la dieta del vecchio mondo, un tema che ha interessato gli storici solo negli ultimi anni. Trapiantare orzo, o altre culture del vecchio mondo nelle colonie, era molto più importante che esportare cioccolato e caffè in Europa, molti coloni avrebbero preferito scambiare tutti gli ananas del mondo con una fornitura di frumento e vino rosso: volevano mangiare pane di grano, condito con olio d’oliva, agnello e vino rosso.[11] Ma il vino d’uva, come il pane di frumento, erano prima di tutto i simboli del cristianesimo: erano le sostanze che permettevano di vivere il mistero della transustanziazione, il mistero del corpo e del sangue di Cristo, e secondo gli europei erano le uniche sostanze capaci di servire questo mistero. Lo stesso San Tommaso, nella Summa Theologica, scrive che la celebrazione può avvenire solo con pane e vino d’uva, escludendo esplicitamente l’utilizzo di altri cereali e di altre bevande fermentate.[12]
4. Riti del dominio: il Corpus Domini tra teologia e controllo
Le Feste religiose ebbero un ruolo fondamentale nella costruzione delle differenze tra il corpo europeo e quello indio, in particolare la festa del Corpus Domini, istituita da papa Clemente V nel 1311 e da celebrare il primo giovedì dopo la domenica di Pasqua. Il primo concilio di Lima aveva vietato agli “indios” l’accesso all’eucarestia, salvo speciali autorizzazioni, ma il divieto venne allentato poi dal secondo e dal terzo concilio. Durante la festa, mentre gli spagnoli danzavano, cantavano e andavano in processione, gli andini non erano autorizzati a prendere parte ai festeggiamenti che, tuttavia, vennero pian piano “introdotti”. L’intento era quello di rendere chiara la differenza tra conquistatori e conquistati.[13] Oltre a ricordare la vittoria di Cristo sulla morte questa festa rappresentò per i coloni l’occasione per celebrare il trionfo militare e la dominazione sui popoli non cristiani; allo stesso modo nella Penisola Iberica servì a celebrare la vittoria sui musulmani, divenendo la festa più importante di Madrid[14], al punto che, per la celebrazione della festa a Toledo, la regina Isabella fece realizzare un ostensorio col primo oro arrivato dalle Americhe, il cui utilizzo è attestato anche per la festa di Siviglia nello stesso periodo[15]. Questa festa divenne presto la più importante nella città di Cuzco, riconosciuta come tale dal Vicerè Toledo nel 1572 che la definì come “la più importante e principale processione dell’anno”, per dare un messaggio forte alla popolazione andina, che lo stesso Toledo ribadì: i loro idoli, frutto di credenze superstiziose e demoniache, erano stati sostituiti da Cristo, il Dio-uomo trionfante sulla morte. La festa del Corpus Domini venne in qualche modo sovrapposta a una festa locale, come riporta il cronista Juan Polo de Ondegardo: si trattava della festa Inka di Inti Raimi, che presentava qualcosa di simile nei rituali alla festa cristiana. Analizzando la correlazione tra le due feste si nota che il Corpus Domini, come festa del trionfo, richiedeva l’opposizione di opposti vinti: la corrispondenza temporale col Corpus Domini, le feste pan-andine della vendemmia e la festa del solstizio di giugno degli Inka fornirono ai cristiani l’avversario simbolico perfetto per la sovrapposizione[16]. Garcilaso de la Vega, figlio di un ricco spagnolo e di una nobildonna inca, nato a Cuzco, descrive la preparazione dei giovani per la festa del Corpus Domini, a metà del XVI secolo. Racconta che il maestro del coro della cattedrale di Cuzco scrisse una versione di un canto della vittoria Inka (Inka Haylli) da far cantare durante la processione cristiana a otto studenti meticci, con vestiti tradizionali incaici, ognuno con in mano un piccolo chakitaklla (aratro indigeno). Nei tempi precedenti la conquista, il canto detto haylli veniva intonato per celebrare una vittoria militare o una buona annata agricola (simboleggiando la vittoria sulla natura).
La differenza culturale ed etnica dei festeggiamenti indiani veniva enfatizzata attraverso costumi ed esibizioni e le autorità coloniali cercarono in tutti i modi di legiferare sulla modalità di partecipazione dei nativi alla festa, stabilendo che danze e altre esibizioni dovevano essere attuate con mezzi appropriati a esprimere la “gioia”: il Viceré Toledo, nell’ordinanza del 1573, specificò che ogni parrocchia di Cuzco avrebbe presentato due o tre danze durante la festa. Vediamo quindi come dall’esclusione dei nativi in quanto vinti, si passò a una loro integrazione graduale, legiferata e secondo regole precise. Queste manifestazioni “esotiche”, in quanto esibizioni della differenza, rendevano chiaro a tutti il successo della conquista e della conversione della regione andina, in quanto dimostravano l’universalità del trionfo cristiano. I costumi “curiosi”, frequentemente notati dai testimoni spagnoli, rispondevano perfettamente alle aspettative etnocentriche degli stessi osservatori: vedere l’alterità etnica e culturale sottomessa al Dio cristiano.
5. Corpi indigeni, sguardi europei
Nei resoconti dei missionari e degli esploratori europei, le descrizioni etnografiche dei popoli americani si soffermano a lungo sui corpi, i costumi e le pratiche sociali delle comunità locali. In particolare, i gesuiti dedicarono ampio spazio ai Tupinambás, che appartenevano alla grande famiglia dei Tupi o, includendo i Carijós (Guaraní) al gruppo Tupi-Guaraní, che era il principale gruppo linguistico del Brasile. Anche loro erano soliti andare in giro nudi, non portavano la barba e si radevano fino alle ciglia; ornavano il viso con pietre colorate, indossavano piume rosse, gialle e di altri colori, attaccate con resina e sul capo presentavano diademi di piume colorate e “altre loro invenzioni”. Erano soliti pitturare il corpo con pigmenti rossi e/o neri. I resoconti sottolineavano anche le pratiche matrimoniali e familiari, interpretate come promiscue e mettevano in luce rituali scioccanti per la sensibilità europea. Gli uomini prendevano diverse mogli e le tenevano finché non si stancavano di loro, le donne si sposavano senza dote e i generi erano obbligati a servire i suoceri. Anche in questo popolo erano presenti forti legami tra l’ambito familiare e la guerra, quando i soldati uccisi sul campo di battaglia lasciavano uno o più figli orfani questi venivano mangiati dai parenti della madre o a volte anche dalla madre stessa. In questa società vigeva la comunione dei beni, soprattutto con il cibo, di cui nessuno poteva fare scorte e non era concepita l’accumulazione dei beni.
Anche la dieta veniva usata come criterio di differenziazione: il loro alimento principale era la radice di manioca, da cui ricavavano una farina che mescolata al mais faceva ottenere un tipo di pane. Producevano vino di mais e radici, che risultava essere molto inebriante.[17] Per il resto vivevano di caccia, pesca e dei frutti della terra. Erano soliti andare nudi anche in guerra, pitturati di rosso e nero, qualcuno si ricopriva anche di piume; usavano principalmente arco e frecce e alcuni uomini suonavano conchiglie durante gli scontri. Spesso si cibavano della carne dei nemici sconfitti e sono presenti varie descrizioni di queste cerimonie: consideravano il mangiare carne umana come il “vero cibo”.[18]
Nel caso delle popolazioni delle Ande (le odierne regioni di Colombia, Perù e Cile) si sviluppò il concetto di “homo-andinus”: individui di statura media, compresa tra 150 e 160 centimetri, con la testa parzialmente rasata e una composizione schiacciata del cranio («“ipsi-brachy-cefalicum”»), con un naso «“non brevis et eminens”» e più aperto verso le narici. Un corpo senza peli, un torace convesso, un colore della pelle variabile anche se la loro pigmentatio era più intensa di quella degli europei.[19]
Questa tipizzazione antropometrica serviva a rafforzare l’idea di una gerarchia naturale tra i corpi, e fu ampiamente usata nelle descrizioni per tracciare i confini razziali tra europeo e non-europeo. Le descrizioni etnografiche non erano mai neutre, erano parte di un dispositivo di potere volto a consolidare l’immagine di un’alterità esotica e inferiore, il corpo indigeno veniva spogliato della sua soggettività e trasformato in superficie da disciplinare. Tra cibo, clima, pelle, riti e forme, si costruiva un immaginario razziale in cui l’altro era sempre corpo: visibile, manipolabile, inferiore. Un corpo da conquistare, cristianizzare, da modellare secondo l’ordine europeo.
L’analisi del corpo come dispositivo razziale ci mostra quanto profondamente le forme del dominio passino attraverso la materia vivente. Il corpo non è solo oggetto di cura e disciplina, ma spazio di iscrizione del potere. Nella modernità coloniale, la razza si è costituita come categoria politica incarnata, resa credibile da dispositivi medici, religiosi e scientifici. La naturalizzazione delle gerarchie passava dalla pelle, dalla dieta, dalla sessualità. Oggi, ripensare questa genealogia critica del corpo significa smascherare le logiche con cui ancora si costruiscono differenze, marginalizzazioni ed esclusioni. È un invito a restituire al corpo – e ai corpi – la loro complessità, la loro storia, la loro voce.
Nell’immagine: Antonio de Pereda, Kitchen Scene, 1650-5.
[1] Cit. in T. Scarpa, Corpo,Einaudi, Torino 2011, p. 106.
[2] Cit. in R. Ago, La costruzione dell’identità maschile: una competizione tra uomini, in La costruzione dell’identità maschile in età moderna e contemporanea, Angiolina Arru (a cura di), Biblink editori, Roma 2001, p. 18.
[3] Cfr. A. Quijano, Colonialidad del poder, eurocentrismo y América Latina, CLACSO, Buenos Aires, 2000, pp. 80-81.
[4] Cfr. Rebecca Earle, The Body of the Conquistador. Food, Race and the Colonial Experience in Spanish America (1492-1700), volume della collana Critical Perspectives on Empire, a cura di C. Hall, M. Sinha, K. Wilson, Cambridge University Press, Londra 2012, pp. 19-20.
[5] Ivi, pp. 22-23.
[6] Ivi, p. 24.
[7] Ivi, p. 25.
[8] Ivi, pp. 36-37.
[9] Ivi, pp. 42-43.
[10] Ivi, p. 52.
[11] Ivi, p. 55.
[12] Ivi, p. 58.
[13] Cfr. C. Dean, Inka Bodies and the Body of Christ. Corpus Christi in Colonial Cuzco, Perù, Duke University Press, London, 1999, p. 1.
[14] Ivi, p. 9.
[15] Ivi, p. 14.
[16] Ivi, pp. 31-32.
[17] Cfr. Monumenta Brasiliae, Vol. I (1538-1553), in Monumenta Missionum Societatis Iesu, Vol. X, por Serafim Leite S.I., Roma, apud M.H.S.I, 1956, pp. 14*-15*.
[18] Ivi, pp. 16*-17*.
[19] Cfr. Monumenta Peruana, Vol. I (1565-1575), in Monumenta Missionum Societatis Iesu, Vol. VII, edidit Antonius de Egaña S.I., Romae, apud M.H.S.I., 1954, p. 18.