di Stefano Piazzese
Ὅστις τοῦ πλέονος μέρους | χρῄζει τοῦ μετρίου παρεὶς | ζώειν, σκαιοσύναν φυλάσσων | ἐν ἐμοὶ κατάδηλος ἔσται. | Ἐπεὶ πολλὰ μὲν αἱ μακραὶ | ἁμέραι κατέθεντο δὴ | λύπας ἐγγυτέρω, τὰ τέρπον- | τα δ’ οὐκ ἂν ἴδοις ὅπου, | ὅταν τις ἐς πλέον πέσῃ | τοῦ δέοντος·
Soph., OC, vv. 1211-1220, p. 141[1]
La tragedia attica è un ‘luogo’ privilegiato della filosofia. Quando i filosofi pensano a partire dalla tragedia e dal suo contenuto magmatico, ossia dal tragico, adempiono uno dei compiti primi del filosofare: pensare l’identità e la differenza. Nessun’altra creazione umana realizza e permette al pensante di intraprendere questo arduo tentativo come la tragedia attica.
Risulta imprescindibile qualche cenno cursorio di carattere storico e tematico prima di entrare in medias res e procedere con l’ermeneutica filosofica della tragedia sofoclea in questione. Oἰδίπoυς ἐπὶ Κολωνῷ fu composta intorno al 406 a. C., lo stesso anno della morte di Sofocle, ed è quindi coeva alla tragedia euripidea Baccanti; entrambe le tragedie chiudono quell’universo storico culturalmente frastagliato, nonché attraversato da radicali mutamenti e sommovimenti politici che fu il V secolo ponendo la parola fine alla vicenda storica della tragedia attica: si tratta, infatti, delle ultime due tragedie a noi pervenute. Distanza nella vicinanza tra le due, e la vicinanza è nel segno di Dioniso che se nella seconda tragedia costituisce una presenza principale, nella prima, che ci accingiamo ad analizzare, è presente solo in un rimando testuale ma tutt’altro che marginale o esornativo. Negli splendidi versi del primo stasimo in cui il Coro tesse le lodi della città di Colono (vv. 668-719, pp. 86-93) si dice che in essa «Dioniso baccheggiante batte il suo piede al servizio delle dee sue nutrici» (vv. 678-680, p. 89). Posta questa consapevolezza, Dioniso sembra costituire il nome che segna non solo l’origine della tragedia attica, mantenendo aperta e valida l’incognita che non ci consente di definirne con certezza la nascita, ma pure la sua acme, ovvero il punto più ‘alto’ di maturazione a cui sono giunti i tragediografi prima della loro morte, la fase più matura del loro pensiero.
Sofocle, oramai novantenne, non arrivò a vedere la messa in scena della sua tragedia, se ne occupò l’omonimo nipote, Sofocle il giovane. Con i suoi 1779 versi Edipo a Colono oltre a essere la tragedia più lunga a noi pervenuta è, come sostiene Guidorizzi, quella che compendia «i grandi nodi della visione tragica della vita»[2] e va considerata all’interno della più ampia cornice mitologica della saga dei Labdacidi, ossia di una delle due diramazioni tematiche principali della tragedia greca e in particolare alla luce delle seguenti tragedie: Sette contro Tebe (Eschilo), Edipo re e Antigone (Sofocle), Antiope e Fenice (Euripide).
Altri due elementi risultano fondamentali alla nostra ermeneutica. Colono è la città di Sofocle, un demo dell’Attica, e nei suoi pressi si trovano luoghi che hanno segnato la storia e la mitologia greca: tra questi il fiume Cefiso e il bosco delle Erinni (presente nella tragedia). Infine, soffermiamoci sul nome del protagonista: Οἰδίπους deriva da οἰδέω (gonfiare) e πούς (piede). Edipo ha nel nome il proprio destino, sicché per il suo vagabondare egli è colui che ha il piede gonfio (o i piedi gonfi). Inoltre, come ricorda Foucault, in Οἰδίπους s’incontra anche la parola οἶδα (sapere, conoscere). Risulta alquanto difficile attraversare in un contributo tutti i nodi della visione tragica della vita che dalla tragedia sofoclea si estendono, proponiamo pertanto al lettore un percorso strutturato in tre tappe principali: sul nesso potere-verità; climax esistentivo e ribaltamento categorico; una riflessione nietzscheana.
1. Sul nesso potere-verità
Nella sua interpretazione dell’Edipo re Foucault ci fornisce una prospettiva che risulta ampiamente valida anche per riflettere sull’Edipo a Colono, considerato che quest’ultima tragedia va intesa a tutti gli effetti come continuum della prima, per questo viene chiamata anche Edipo secondo. Lungi dalla lettura freudiana della tragedia, già fortemente invalidata dall’acuta e puntuale analisi di Vernant in Edipo senza complesso[3], ma pure da Deleuze e Guattari con argomenti diversi in L’Anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia[4], la tesi del filosofo francese ci proietta nella dimensione politica dell’opera sofoclea, quella di maggiore rilievo potremmo dire, stando alla quale la vicenda di Edipo sancirebbe nell’orizzonte della cultura europea l’inizio della separazione tra sapere e potere, tra potere e filosofia intesa come critica, ossia il «diritto di opporre una verità senza potere ad un potere senza verità»[5]. Foucault tratta il suddetto tema in un seminario tenuto all’Università cattolica di Rio de Janeiro dal 21 al 25 maggio del 1973.
Ora, la vicenda di Edipo, dice Foucault,
è rappresentativa, in una certa maniera, instauratrice di un determinato tipo di relazione tra potere e sapere, tra potere politico e conoscenza, relazione di cui ancora la nostra civiltà non si è liberata. Credo che ci sia veramente un complesso di Edipo nella nostra civiltà. Ma questo complesso non ha niente a che vedere con le relazioni tra l’uno e l’altro. Se c’è qualcosa di simile a un complesso di Edipo, questo non si produce a livello individuale, ma a livello collettivo; non è legato al desiderio e all’inconscio, ma al potere e al sapere[6].
Creonte è un sovrano non più in giovane età, provato anch’egli dalle esperienze e da tutto ciò che comporta il governare; la logica di potere politico ch’egli incarna è quella dell’oppressore e la si evince quando Edipo dopo averlo ascoltato afferma: «sfrontato in tutto, da un discorso onesto sempre tu cavi macchina d’inganno!» (vv. 761-762, p. 97). Creonte vuole ingannare Edipo con «parole dolci che sono dure» (v. 774, ibid.), ovvero vuole servirsi del potere persuasivo del λόγος per attuare le proprie intenzioni ed esercitare il suo κράτος. Ma, e qui trova conferma la tesi di Jacob Burckhardt secondo cui i Greci furono pessimisti della visione del mondo ma ottimisti del temperamento, nonostante i vari Creonte è possibile che vi sia anche un Teseo, un sovrano illuminato, è possibile che ci sia un re che eserciti il potere con ossequio alle leggi di Zeus protettore dei supplici.
Teseo, rivolgendosi a Creonte per evidenziare il suo abuso di potere, esalta Colono come città che rispetta il diritto e che agisce solo in conformità alle leggi (vv. 914-915, p. 111). Sempre in riferimento a ciò, Edipo rivolgendosi a Teseo afferma: «solo in voi ho trovato rispetto degli dèi, | onestà e rifiuto della menzogna» (vv. 1126-1127); il riferimento concettuale nel testo è all’εὐσέβεια (v. 1125) che per i Greci sta a fondamento di una vita felice, ovvero il timore e la riverenza nei confronti degli dèi che si estrinseca nella consapevolezza del limite antropologico che pertiene allo stare umano e nel rispetto delle leggi di Zeus protettore dei supplici. Il sovrano di Atene e tutta la città di Colono, che inizialmente si ritrae con timore, usano benevolenza nei riguardi di Edipo il quale, rivolgendosi sempre a Creonte, dice: «La tua bocca invece è venuta qui fallace, | piena di punte insidiose» (vv. 794-795, p. 99). Sorge un problema di natura ‘giuridica’: Creonte nel voler riprendere i suoi, Antigone e Ismene, è nel proprio diritto (vv. 832-834, p. 103), compie δίκαια, un atto legittimo, ma la risposta di Teseo è emblematica e forte di quell’autorevolezza che viene dal senso della misura (vv. 911-923, pp. 111-113). Si verifica qui l’isostenia tragica che sta al centro della tragedia e che in nessun punto è risolta o superata: la tragedia per essere tale deve rimanere un cammino tra aporie, tra contraddizioni non risolvibili in modo definitivo con il trionfo sine dubio di una delle parti in lotta.
L’analisi dell’Edipo a Colono ci insegna che bisogna individuare la problematicità del mito corroborato in particolar modo da Platone, stando a Foucault, che vuole una relazione antinomica tra sapere e potere poiché «dietro ogni sapere o conoscenza ciò che è in gioco è una lotta di potere. Il potere politico non è assente dal sapere, al contrario, è tessuto con questo»[7].
2. Climax esistentivo e ribaltamento categorico
La svolta che emerge nella narrazione vuole che l’Edipo della precedente tragedia, rifiutato da tutti, dall’intera comunità di Tebe, dalla città in cui egli esercitava il proprio potere di τύραννος, adesso è accolto, cercato, desiderato poiché la città che ne onorerà le spoglie dandogli sepoltura sarà invincibile: così dicono gli oracoli, ecco perché, sostiene Girard, «il suo futuro cadavere costituisce una specie di talismano che Colono e Tebe si contendono con asprezza»[8]. Come interpretare questa svolta che si ha nella tragedia nei confronti di Edipo? Nella sua vicenda si verifica quello che potremmo definire un climax esistentivo declamato da Ismene al v. 394: «Ora gli dèi t’innalzano, come prima t’hanno distrutto» (p. 61); va precisato che tale “gradazione ascendente” va intesa alla luce di ciò che leggiamo nella ὑπόθεσις e che trova appunto conferma nelle parole di Ismene poc’anzi citate: «Edipo conclude la sua vicenda terrena presso le dee» (I [14], p. 11), e dunque egli da errabondo diviene colui che termina la propria vita accolto nella gloria dalle divinità che prima gli erano ostili. Edipo arriva a Colono cieco e mendicante: è solo un πλανήτης (vv. 3, 123-124), un vagabondo. Arrivato a Colono si definisce ἀπόπτολις (v. 208), cacciato via dalla propria città; dirà a Polinice di essere ἄπολις (v. 1357), un uomo «senza città». Teseo, dopo averlo accolto, ne vuole fare un ἔμπολιν (v. 637), un uomo «dentro la città»[9]. Edipo adesso è lo straniero che, accolto nella città, pone in essere il dramma dell’ospitalità così come Derrida lo ha eloquentemente delineato[10].
A mutare è anche il modo in cui il passato di Edipo è interpretato in forza del presente della tragedia. Significative le parole del Coro: «Questo straniero, signore, è onesto: i suoi guai | sono, sì, rovinosi, ma degni di soccorso» (vv. 1014-1015, p. 121); se ci troviamo di fronte a una ‘riabilitazione’ di Edipo significa che, ricorda Guidorizzi, «la tragedia nasce appunto quando la comunità degli uomini incrocia nuovamente il cammino di questi esseri che ne erano stati espulsi»[11], a conferma del carattere indeterminabile della tragedia secondo cui ogni istante può essere l’istante del ribaltamento categorico (der kategorischen Umkehr)[12], come lo ha definito Hölderlin, e tale ribaltamento o capovolgimento non è detto che debba avvenire per forza verso una sola direzione; forzare questo principio significa porsi al di fuori del fondamento che caratterizza la tragedia per ricavare da essa, in termini filosofici s’intende, ciò che risulta più affine o edificante rispetto alla propria visione del mondo. No: la tragedia rimane in piedi solo se è capace di far tremare i fondamenti delle nostre più salde certezze, anche delle acquisizioni noetiche e dianoetiche provenienti dallo stesso sapere tragico o dall’illusione di sentirsi maggiormente affini a esso. La tragedia è tale solo se lasciamo che la sua contraddizione ci conduca nei pressi spaesanti dell’altrove rispetto ai “luoghi del pensiero” che di solito frequentiamo. Anche Girard è dello stesso parere, e sempre in riferimento al mutamento che si verifica nella vicenda di Edipo sostiene che
se Edipo è oppressore nell’Edipo re, è oppresso nell’Edipo a Colono. Se Creonte è oppresso nell’Edipo re, è oppressore nell’Antigone. Insomma, nessuno incarna l’essenza dell’oppressore o l’essenza dell’oppresso; le interpretazioni ideologiche della nostra epoca sono il supremo tradimento dello spirito tragico, la sua metamorfosi pura e semplice in dramma romantico o in western americano. Il manicheismo immobile dei buoni e dei cattivi, la rigidezza di un rancore che non vuole mollare la vittima quando la tiene in pugno, si è interamente sostituito alle opposizioni mutevoli della tragedia, ai suoi capovolgimenti perpetui[13].
Questo ribaltamento categorico, questo capovolgimento che ha luogo nella vita di Edipo nella forma della sua ‘riabilitazione’ da parte degli dèi lo si può evincere in modo radicale dalle parole di Antigone al v. 249, quando ella chiede alla città di Colono che si conceda al padre τὰν ἀδόκητον χάριν, «la grazia insperata» (p. 47). Certo, l’accoglienza di Edipo reca un vantaggio di carattere politico, come si legge nei versi successivi (vv. 287-289), porta beneficio agli abitanti (ἀστοῖς; v. 288), e sulla dimensione politica della tragedia si è già detto qualcosa.
Vogliamo soffermarci, adesso, sull’interpretazione del concetto di grazia insperata che esprime appieno la direzione del ribaltamento che tocca la storia di Edipo. Dopo aver vissuto la piena del dolore egli è accolto per l’intercessione che il Coro rivolge alle Erinni – «accolgano | con animo benigno il supplice della salvezza» (vv. 486-487, p. 69) –, e dunque da rifiutato e scacciato da Tebe egli diviene a Colono τὸν ἱκέτην σωτήριον (v. 487). Una consapevolezza filosofica segna il maturo pensiero tragico di Sofocle e si caratterizza come inno alla sovranità del tempo su tutto, anche sulla vicenda che più di ogni altra sembra avviarsi irrimediabilmente verso una presunta direzione. Così Edipo rivolgendosi a Teseo, sovrano illuminato: «Carissimo figlio d’Egeo, solo agli dèi non capita | d’invecchiare per poi morire, | tutto il resto stravolge il tempo onnipotente!» (vv. 607-609, p. 83). Sebbene il tempo della narrazione dell’Edipo a Colono preceda quello dell’Antigone, come si è detto, la prima tragedia fu scritta dopo la seconda in una distanza approssimativa di circa trentasei anni, ed è interessante notare come il mutamento di cui si parla tocchi finanche la figura di Antigone, di cui i vv. 171-172 offrono un’immagine abbastanza suggestiva se confrontata con il personaggio dell’omonima tragedia: «Bisogna adeguarsi, padre, all’uso dei cittadini | cedere quando si deve, obbedire» (p. 37).
È il tempo onnipotente (ὁ παγκρατὴς χρόνος) a stravolgere ogni cosa, e al di là del beneficio politico che il corpo di Edipo reca con sé quale premio per la sua accoglienza e sepoltura, è il trionfo del tempo l’unica ragione posta da Sofocle che assurge a causa motrice del capovolgimento categorico. È il tempo onnipotente che muta ogni prospettiva in modo talmente profondo e radicale che in questa tragedia Sofocle fa riferimento all’involontarietà del male commesso da Edipo, allorquando questi rivolgendosi a Creonte afferma nei seguenti passaggi del testo:
Ma in quanto persona non potresti accusarmi
d’alcun errore[14], per cui meritassi
di peccare così contro me e contro i miei.
(vv. 966-968, p. 117)
So soltanto una cosa, che tu di tua volontà
ci vai diffamando, mentre io senza volere
l’ho sposata, e senza volere[15] ne parlo.
(vv. 985-987, p. 119)
Proprio in questa disgrazia sono incappato,
per volere divino[16]; nemmeno mio padre, credo,
se fosse ancora in vita, direbbe nulla in contrario.
(vv. 997-999, ibid.)
Gli dèi che prima hanno tolto adesso stendono le proprie mani per dare; a tal proposito merita uno sguardo attento il pantheon della tragedia: Zeus onnipotente, Pallade Atena, Apollo cacciatore e la sorella (Artemide), Poseidone, il dio di Colono, e le Erinni.
La sventura di Edipo è stata causata da Ἀνάγκη, motivo per cui se egli in Edipo re paga il fio per i fatti commessi a prescindere dalla propria volontà, in Edipo a Colono viene considerata anche l’assenza del suo volere nell’aver commesso quei fatti; ecco perché i suoi guai sono detti «ἄξιαι δ’ἀμυναθεῖν», degni di soccorso (v. 1015, p. 121); e comunque, al di là di ciò, l’agire degli dèi rimane sempre imperscrutabile. Anche il Coro declama questa comprensione profonda del mondo e della vita attraverso un riferimento concettuale molto caro al pensiero di Sofocle: «Il Tempo guarda le cose, | sta sempre a guardarle, ed esalta | ora questo, ora quello, giorno per giorno» (vv. 1453-1455, p. 163). Il concetto di Tempo, il rimando a Χρόνος, si staglia sullo sfondo narrativo del frastuono dei tuoni che prepotenti annunziano la presenza di Zeus (vv. 1455, 1461, 1464, 1478-79, 1514, 1606).
L’atto finale dell’esistenza di Edipo è nella gloria; egli, dopo aver patito immani sofferenze, muore senza dolore (v. 1585, p. 177; v. 1662-65, p. 183), dopo aver errato in mezzo alle fitte tenebre della propria cecità si diparte dalla vita nella luce; la fine è un evento meraviglioso in cui si spalanca l’abisso degli inferi a lui benevolo, ciò che gli accade è davvero θαυμαστός (v. 1665), degno di ammirazione, meraviglioso, strano. È senz’altro emblematico che la tragedia di Edipo riporti nel proprio epilogo il concetto di θαῦμα, fondamentale al pensiero filosofico che si svilupperà successivamente a partire da Platone e Aristotele.
3. Una riflessione nietzscheana
Quando si considera la tragedia tenendo presente la sua identità filosofica non ci si può sottrarre dal confronto con Nietzsche. Dall’opera del 1872, compresi gli scritti e le conferenze degli anni precedenti, parlare della tragedia e del tragico significa confrontarsi con La nascita della tragedia, e dunque con la teoria nietzscheana della tragedia. In che modo l’opera in questione ci può essere d’aiuto nell’ermeneutica dell’Edipo a Colono? Anche Nietzsche individua il ribaltamento di cui parliamo e lo concettualizza in termini di Heiterkeit che trasfigura tutta la vigorosa tragicità della vicenda di Edipo. Così Nietzsche:
Nell’Edipo a Colono incontriamo questa stessa serenità [Heiterkeit], ma elevata sino a una infinita trasfigurazione; contrapposta al vecchio che è oppresso da un eccesso di miseria ed è abbandonato soltanto come sofferente a tutto ciò che lo colpisce – sta la serenità ultraterrena che s’irradia dalla sfera divina e ci accenna come l’eroe possa raggiungere, con il suo comportamento puramente passivo, la sua più alta attività, che si estende molto al di là della sua vita, mentre tutti i suoi sforzi consapevoli nella vita precedente l’avevano condotto solo alla passività. Così il nodo processuale della favola di Edipo, indissolubilmente aggrovigliato per l’occhio mortale, viene lentamente districato – e la più profonda gioia umana ci invade per questa divina analogia della dialettica[17].
Il concetto di Heiterkeit a cui fa riferimento il filosofo va compreso all’interno della più ampia prospettiva che egli elabora sulla morte della tragedia, stando alla quale la causa principale sarebbe il progressivo prevalere del λόγος, dell’elemento dialogico (socratico), dei dialoghi, sull’elemento dionisiaco, ossia la musica. Ora, rimanendo sempre sull’Edipo a Colono, Nietzsche sostiene che la conclusione dei nuovi drammi mostra chiaramente la ormai irreversibile tendenza antidionisiaca (antidionysische Tendenz; undionysische Geist) della tragedia che, una volta intonato il canto del cigno, mostra non più l’irruzione della consolazione metafisica (der metaphysische Trost), elemento che caratterizzava la tragedia più antica, ma il configurarsi di una soluzione alla tragischen Dissonanz. Continua più avanti Nietzsche:
Ma nel modo più chiaro il nuovo spirito antidionisiaco [undionysische Geist] si rivela nella conclusione dei nuovi drammi. Nella tragedia antica si era potuta sentire alla fine la consolazione metafisica [der metaphysische Trost], senza la quale non si può affatto spiegare il piacere per la tragedia: nel modo più puro l’accento di conciliazione proveniente da un altro mondo risuona forse nell’Edipo a Colono. Ora che il genio della musica era fuggito dalla tragedia, la tragedia era, in senso stretto, morta: donde si dovrebbe infatti poter attingere ora quella consolazione metafisica? Si cercò quindi una soluzione terrena della dissonanza tragica [tragischen Dissonanz]; l’eroe, dopo essere stato sufficientemente martirizzato dalla sorte, raccoglieva con un ragguardevole matrimonio o con onoranze divine una ben meritata ricompensa. […] Al posto della consolazione metafisica è subentrato il deus ex machina[18].
Faremmo un immenso torto al pensiero di Nietzsche se considerassimo la sua teoria della tragedia in modo acritico, e dunque senza tener conto delle rilevanti problematicità, ora filologiche ora filosofiche, che da essa emergono per discuterne teoreticamente. La grandezza de La nascita della tragedia risiede infatti proprio nella sua infinità potenza generatrice di domande e di questioni irrisolte che caratterizzano la riflessione filosofica sulla tragedia. Per comprendere appieno il modo in cui Nietzsche intende il tragico sofocleo è opportuno qualche rimando ai nachgelassene Fragmente del 1869-1870, un arco temporale che possiamo considerare a tutti gli effetti il periodo di gestazione, o comunque la fase più rilevante di essa, dell’opera del 1872. In NF 1870 7 [94] leggiamo:
Nella tragedia sofoclea il linguaggio è, rispetto ai personaggi, per così dire l’elemento apollineo. Il linguaggio tra-duce quei personaggi. Essi di per sé sono abissi, come ad esempio Edipo. In questo senso si può dire che una tragedia di Sofocle in certo modo riproduca l’immagine dell’essenza greca. Tutto ciò che appare in superficie sembra semplice, trasparente, bello. Il loro danzare è sempre bello – come nella danza la forza più grande è solo potenziale, ma si svela nella flessuosità e nella ricchezza dei movimenti – così l’essenza greca è esteriormente una bella danza. In questo senso i Greci sono un trionfo della natura, che in loro è pervenuta alla bellezza. La motivazione della tragedia è puramente apollinea. Il dialogo è il regno dell’apollineo[19].
Qui Nietzsche mostra uno sguardo su Sofocle e su Edipo[20] che non traspare molto ne La nascita della tragedia, ma al di là delle diverse sfumature che comunque si collocano sullo ‘spazio’ della medesima prospettiva, a colpire la nostra attenzione è il concetto di serenità sazia[21] (die satte Heiterkeit), o serenità piena, proprio in riferimento all’Edipo dell’Edipo a Colono. La serenità sazia, va precisato, non dissolve la tensione tragica: rimane il dolore di Antigone e Ismene. La figura di Edipo accompagnerà la riflessione di Nietzsche sino all’ultima fase della sua produzione, come leggiamo in altri frammenti postumi del 1885, in Al di là del bene e del male e in Aurora.
Che cos’è questa Heiterkeit[22] se non l’inveramento di una grazia insperata? E cos’è la grazia insperata se non un carattere della tragedia che anziché indebolirne la sua dionisiaca fiamma la conferma quale pedagogia del dolore[23] e humus filosofico del ribaltamento categorico? Il concetto di grazia insperata ci permette di comprendere in modo chiaro e inequivocabile il significato dei vv. 1211-1220 citati a epigrafe del presente lavoro. Si tratta, infine, di pensare la tragedia con Nietzsche oltre Nietzsche stesso.
In foto : M.-A. Baschet, Oedipe maudit son fils Polynice, 1883 (Olio su tela. École Nationale Supérieure des Beaux-Arts, Parigi).
[1] Sono sempre diverse le ragioni e le occasioni dalle quali può nascere un contributo, ma, come ogni pluralità causale che si rispetti, per chi fa esperienza del tempo che siamo e della contingenza può accadere che un evento si riveli determinante ed assuma una particolare preminenza sulle altre cause. Nel caso del presente contributo, la ragione particolare che ne sta a fondamento è l’invito rivoltomi dal Prof. Enrico Palma al Circolo Culturale “Giovanni Verga” di Vizzini per dialogare assieme a lui sull’Edipo a Colono: a questo evento e a tutti coloro che hanno partecipato dedico il presente contributo per onorare con gratitudine il segno che l’incontro, tenutosi lo scorso 16 maggio, ha inciso nella mia memoria.
Per il riferimento bibliografico alla tragedia sofoclea si è adoperata l’abbreviazione del lessico Liddell-Scott-Jones con l’eccezione del nome “Sofocle” che qui è “Soph.”, seguito da OC (Oedipus Coloneus). Per le citazioni dalla tragedia il lettore troverà tra parentesi nel testo il numero del verso seguito dal numero di pagina della seguente edizione critica in lingua italiana: Sofocle, Edipo a Colono, introduzione e commento di G. Guidorizzi, testo critico a cura di G. Avezzù e traduzione di G. Cerri, «Fondazione Lorenzo Valla», Mondadori, Milano 20112.
[2] G. Guidorizzi, Introduzione, in Sofocle, Edipo a Colono, cit., p. XII.
[3] Cfr. J.-P. Vernant, Edipo senza complesso (Oedipe sans complexe, 1967), trad. di A. Masullo Costa, Mimesis, Milano-Udine 20132.
[4] G. Deleuze, F. Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia (L’Anti-Oedipe, 1972), trad. di A. Fontana, Einaudi, Torino 1975. Degna di nota è quella che potremmo definire la tesi centrale dell’opera di Deleuze e Guattari così riassunta da M. Foucault in Id., La verità e le forma giuridiche, trad. di L. D’Alessandro, La Città Del Sole, Napoli-Potenza 2021, p. 39: «in altre parole, Edipo, secondo Deleuze e Guattari, non è il contenuto segreto del nostro inconscio, ma la forma di coazione che lo psicanalista cerca d’imporre, nella cura, al nostro desiderio e al nostro inconscio. Edipo è uno strumento di potere, è un certo tipo di potere medico e psico-analitico che si esercita sul desiderio e sull’inconscio».
[5] M. Foucault, La verità le forme giuridiche, cit., p. 60.
[6] Ivi, p. 40.
[7] Ivi, p. 57.
[8] R. Girard, La violenza e il sacro (La Violence et le sacré, 1972), trad. di E. Czerkl e O. Fatica, Adelphi, Milano 1980, p. 118.
[9] G. Guidorizzi, Introduzione, cit., p. XXVII.
[10] J. Derrida, Sull’ospitalità (De l’hospitalité, 1997), a cura di A. Dufourmantelle, Baldini & Castoldi, Milano 2000.
[11] G. Guidorizzi, Introduzione, cit., pp. XXI-XXII.
[12] F. Hölderlin, Sämtliche Werke, Hölderlin Kleine Stuttgarter Ausgabe (KlStA), von F. Beissner und A. Beck, W. Kohlhammer Verlag, vol. V, Stuttgart 1962, p. 220.
[13] R. Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 198.
[14] ἁμαρτία: colpa, peccato, errore.
[15] ἄκων: non volente, involontario.
[16] «θεῶν ἀγόντων».
[17] F. Nietzsche, La nascita della tragedia dallo spirito della musica, in «Opere» III/1, trad. di S. Giametta, Adelphi, Milano 1972, pp. 65-66. Le parole dall’originale tedesco tra parentesi quadra sono dell’autore e tratte dalla Digitale Kritische Gesamtausgabe delle opere di Nietzsche curata da G. Colli e M. Montinari in http://www.nietzschesource.org (consultato il 22.05.2025).
[18] Ivi, p. 117.
[19] F. Nietzsche, Frammenti postumi 1869-1874, in «Opere», III/3, Parte I, trad. di G. Colli e C. Colli Staude, Adelphi, Milano 1989, p. 162.
[20] Ivi segnaliamo al lettore altri frammenti postumi dello stesso periodo: 1869, 1 [6], p. 5: «Morte della tragedia con l’Edipo a Colono, nel bosco sacro delle Furie. Sofocle raggiunge individualmente un punto d’equilibrio. “Demone delirante”. * L’epoca di Sofocle è quella della dissoluzione. La retorica sopraffà il dialogo. Il ditirambo diventa il campo dove si esibisce il musicista specifico: ha luogo una seconda nascita artificiale del dramma musicale. Seconda fioritura. Ormai la musica sparisce del tutto dalla tragedia, come ogni tendenza idealistica»; 1870, 5 [13], p. 92: «Per l’Edipo a Colono. v. 7. Rassegnazione imparata grazie al destino avverso, alla lunga vita e all’animo nobile»; 1870, 5 [26], p. 96: «Come Edipo, anche noi giungiamo alla pace solo nel bosco sacro delle Eumenidi»; 1870-71, 7 [22], p. 145: «Edipo,* il parricida che vive nell’incesto, scioglie allo stesso tempo l’enigma della sfinge, della natura. Il mago persiano nasceva dall’incesto: * è la stessa rappresentazione. Cioè, finché si vive entro le regole della natura, essa ci domina, e tiene nascosto il suo segreto. Il pessimista la fa precipitare nell’abisso indovinando i suoi enigmi. Edipo è il simbolo della scienza».
[21] Ivi, 1870-71, 7 [162], p. 206: «La tragedia talvolta raggiunge (per esempio, l’Edipo a Colono) la serenità sazia».
[22] Serenità che traspare all’inizio del nono e ultimo ‘movimento’ della composizione di F. Mendelssohn Ödipus in Kolonos (Op. 93, MWV M14), Weh uns! Uberall und ewig mussen wir klagen.
[23] Cfr. U. Curi, Il colore dell’inferno. La pena tra vendetta e giustizia, Bollati Boringhieri, Torino 2019.