di Enrico Carmelo Tomasello
L’atto del parlare è relazionale: ciò che in esso sempre e prima di tutto si comunica,
al di là degli specifici contenuti che le parole comunicano,
è la relazionalità acustica, empirica e materiale, delle voci singolari
A. Cavarero
Quando parliamo di narrazione e del potere delle storie, parliamo di qualcosa di profondamente antico. Le vicende dell’umanità sono il risultato di questo intreccio. Della stratificazione che le narrazioni degli storici, dei popoli e di ogni narratore hanno prodotto nel corso della loro vita. Queste hanno poi subito variazioni nel tempo: tra racconti e leggende tramandate oralmente, che si sono deformate ad ogni racconto come in un gigantesco telefono senza fili; alle testimonianze scritte che hanno subito alterazioni volontarie ed involontarie da falsari, ingannatori o più semplicemente da chi voleva approfittarne per svariati motivi. La versione originale di una vicenda è divenuta per certi aspetti una questione secondaria, rispetto alle ricadute che la notizia, vera o presunta che sia, ha sulla realtà. Così facendo abbiamo anteposto il ruolo della veridicità del contenuto alle conseguenze che questo produce su chi subisce il fatto. Ad ampliare ulteriormente il caos entropico della comunicazione si aggiungono i mezzi attraverso cui questa avviene: dalle lettere alle mail, dalla radio alla tv, dai telefoni agli smartphone. Ad ogni aggiornamento tecnologico corrisponde una ricaduta sui meccanismi della comunicazione. Sempre più istantanea, ininterrotta ed onnipresente, ma mai neutrale come i dispositivi di cui ci serviamo per produrla e consumarla. Se è vero che le parole sono custodi immortali del significato del nostro mondo fatto di visioni, significato e senso delle cose, allora l’impoverimento lessicale e la semplificazione massiccia di ogni formulazione grammaticale, non sono altro che uno slittamento verso una forma depauperata del linguaggio e di conseguenza povera di mondo. In tal senso l’elemento chiave che guida questo andamento è a mio avviso la velocità e la frenesia spasmodica con cui “vanno” riempite le giornate di ognuno di noi con impegni ed appuntamenti. Tutti al servizio del dio della performance, che punisce chi non è indaffarato in qualsiasi sciocchezza, purché faccia qualcosa, e non si dica libero da impegni. Come se fosse una vergogna, come se la noia fosse un grande male da cui scappare, come se la vita fosse una grande raccolta di bollini per ricevere un premio finale. Eppure un’esperienza collettiva, non così distante da noi, ci ha restituito per un intervallo di tempo limitato il significato di questo viaggio. Durante la pandemia, oltre alle pesanti ripercussioni psicologiche, abbiamo avvertito, come frutto di una costrizione dovuta al rallentamento generale della nostra quotidianità, l’esigenza di riconnetterci alla narrazione in ogni sua forma e provare a percepirne il battito. L’abbiamo fatto in diversi modi, seguendo diverse vie e con i mezzi a nostra disposizione. Uno di questi sentieri è stato ed è ancora oggi il podcast.
1. L’ascolto digitale
Ogni giorno milioni di persone ascoltano storie, interviste, lezioni e molto altro attraverso il proprio smartphone, durante una pausa lavorativa o come momento di relax per far da sottofondo alla preparazione di un pasto. Ognuno con una propria routine. Oltrepassando la barriera spazio-temporale per far in modo che la voce narrante arrivi all’ascoltatore in qualsiasi momento ed in qualsiasi luogo. L’ascolto di questi contenuti è sempre scandito da episodi disponibili con regolarità. Scaricati il giorno prima posso essere riprodotti in luoghi in cui i nostri dispositivi non hanno campo oppure possono essere ascoltati in streaming ovunque ci sia una connessione adeguata. Spotify, Apple Podcasts, Amazon Music, Spreaker, Audible, YouTube sono solo alcune tra le principali piattaforme per l’ascolto di musica o per la riproduzione di video che prevedono una sezione dedicata ai podcast. Alcune di queste esistono esclusivamente per la loro riproduzione. Ma da quando abbiamo iniziato a parlare di podcast? Perché riscuotono questo gran successo? E qual è il significato antropologico di questo movimento dell’essere umano? Ciò che sappiamo sul podcasting non è molto, ma certamente ha a che vedere con il mondo della tecnologia e con quello della comunicazione. Sappiamo che: «il termine “podcasting” […] nasce dalla crasi di “IPod” e “broadcasting”. Il primo a utilizzare questo termine è stato il giornalista inglese Ben Hammersley, il 12 febbraio 2004, in un noto articolo del “Guardian”»[1]. Tuttavia oggi intendiamo qualcosa di profondamente diverso pur utilizzando lo stesso termine. Ci riferiamo ad un medium che possiede caratteristiche ben precise.
Una su tutte credo sia la sua accessibilità, oltre alla flessibilità ed alla facilità d’uso che lo rendono uno strumento di comunicazione orizzontale e di massa. Se da un lato il podcast appare come uno strumento di narrazione ancestrale, poiché riporta la voce umana ad un ruolo da protagonista (il che ricorda una lunga tradizione orale con radici antichissime) dall’altro lato, come ogni mezzo di comunicazione, anche il podcast non è neutrale. Dietro la sua apparente semplicità e immediatezza si nascondono diverse componenti psicologiche, culturali ed antropologiche che alla fine ci consentono di motivare anche la risposta al quesito sul perché del suo successo e della sua diffusione in larga scala. Senza dimenticare la lezione di McLuhan, per cui il medium corrisponde al messaggio, oggi riconosciamo come lo strumento di cui ci serviamo per fruire dei contenuti ed anche i suoi canali di riproduzione, non siano semplicemente un mezzo senza alcuna rilevanza su ciò che ascoltiamo e sul senso di ciò che percepiamo, ma un filtro che modella la comunicazione dei contenuti e la comprensione dei significati originali; dunque assume un ruolo rilevante non solo su ciò che percepiamo ma anche su quello che rielaboriamo successivamente. Presentandosi come il fautore di una nuova temporalità non costituisce un nuovo senso del tempo, ma ristabilisce i ritmi della riflessione, colonizzando tutti i momenti o gli spazi vuoti della giornata, e trasformando ciò che poteva essere un elemento di autenticità nel quotidiano vivere, in un mezzo di comunicazione che condivide i connotati dei social network (onnipresenti, mai evasivi ed alienanti rispetto ad una normalità ormai insostenibile). Così l’ascoltatore non prende mai realmente parte a questo dialogo, se non nelle forme del sondaggio e della risposta alla cosiddetta call to action che richiede solitamente il podcaster agli ascoltatori. In questo modo si realizza la profezia di cui parla Byung-Chul Han ed anche il podcast rientra tra i dispositivi utili ad alimentare la dittatura della produttività, della prestazione e della performance. Il podcast all’interno del contesto storico e sociale in cui viviamo, col suo carattere coinvolgente e flessibile, si adatta con facilità alla struttura di giornate stracolme d’impegni in cui restano degli spazi vuoti da poter riempire con prodotti che ci restituiscano la sensazione di star ottimizzando anche quel tempo residuo e di non sprecarlo mai. Poiché secondo questo regime solo il tempo che produce qualcosa, qualsiasi essa sia, è tempo “ben speso”, nella misura in cui è misurabile o calcolabile ciò che è stato aggiunto durante quell’intervallo di tempo. Tutto ciò dovrebbe restituirci la cifra ed il significato antropologico di quanto avviene individualmente e collettivamente. Abbozzando di fatto una risposta al terzo quesito posto in precedenza. Abbiamo compreso come debba essere il soggetto ad interrogarsi su ciò che ascolta ma anche sulla rilevanza del come avviene l’ascolto. Sappiamo che esistono dei movimenti collettivi che spingono l’essere umano ad inseguire un modello di vita e poi a dimenticarsene. Riconosciamo come nessuno sia più severo di se stesso, proprio perché non può dissimulare o nascondere i propri punti deboli all’infinito. Per queste ragioni il podcast riconduce le responsabilità dell’ascolto al singolo individuo. Il quale dovrebbe far di tutto per evitare quell’eco ricorsiva, tipica dei social network che ripropone solamente ciò che rinforza e rassicura le nostre opinioni. Ed andare verso un ascolto nuovo, pronto ad accogliere l’alterità e la dissonanza che conduce all’incomprensione ed alla scoperta dell’ascolto digitale come atto autentico, simile ad una grande cassa di risonanza della curiosità umana.
2. Oltre il dire
La voce non è mai solamente un veicolo del contenuto. Essa stessa è corporeità incarnata, memoria sonora, durata che attraversa il tempo. Ricordiamo la voce di una persona a noi cara e la consideriamo in un rapporto di coincidenza con la persona stessa. Per questo, quando qualcuno imita la voce di qualcun altro, abbiamo l’impressione di averla lì di fronte a noi. Oppure, quando in una pellicola cinematografica assistiamo alla lettura di una lettera o di un messaggio di qualsiasi genere, quest’ultimo viene sempre letto con la voce del mittente, proprio per rendere più realistico il concetto e rinforzare il rapporto d’identità tra la parola scritta e l’individuo. Perché la voce è uno dei suoi connotati e ad essa appartiene la sua essenza. Anche quando cambia, la voce alla fine torna sempre a se stessa. Si altera per qualsiasi ragione, ma il suo cambiamento è sempre custode di un messaggio. Può darci delle indicazioni sul passato, quando il giorno prima abbiamo urlato o abbiamo preso freddo. Può dirci qualcosa sul presente, quando ne modifichiamo il tono volontariamente per attirare l’attenzione di chi ci ascolta, come quando parliamo sottovoce. Può rivelarci qualcosa anche sul futuro, come quando balbettiamo e costringiamo il respiro all’affanno proiettando ansie, paure e sensazioni verso ciò che verrà. Ma non smettiamo mai di disseminare indizi ovunque attraverso la nostra voce. Sorge spontaneo domandarsi: di cosa parliamo quando richiamiamo il concetto di voce? E perché il podcasting, in quanto habitat congeniale all’arte vocale, può dirci qualcosa sul nostro stare al mondo?
Provando a riordinare le idee, ricerchiamo il bandolo di questa matassa e procediamo con ordine. Il suono, ovvero la parola costituita di senso, precede la scrittura, la sua struttura grammaticale ed è espressione del pensiero razionale. Quindi, anche quando non arriva ad esprimersi nella forma orale, esiste all’interno di chi la pensa e risuona dentro di noi, in un dialogo interiore. Come ricorda Agamben, mantiene sempre un rapporto con il linguaggio. Poiché «la parola latina vox – come quella greca phōné – significa tanto voce che vocabolo, tanto parola significante che la sua coscienza sonora. Questa omonimia non è certo casuale. In essa viene alla luce un problema filosofico in ogni senso fondamentale, che, tuttavia, è stato di rado tematicamente interrogato: quello della relazione tra la voce e il linguaggio»[2]. Il podcast allora può essere visto come il luogo in cui si manifesta questa relazione, come un ritorno alla phōné greca in chiave contemporanea, a patto che resista all’urgenza di farne a tutti costi un marketing, in una dichiarazione d’intenti che caratterizza più individuo contemporaneo che l’uomo greco del mondo antico. Solo allora potrà restituirci l’impronta delle esistenze che incontriamo nelle vibrazioni delle corde vocali, nei suoi respiri, nelle sue esitazioni e nel suo ritmo interiore che si manifesta a noi. A quel punto saremmo pronti ad accogliere l’altra voce, quella di chi ci parla. Non solo per percepirne il suono o per assorbirne i contenuti, ma per entrare in contatto con un mondo diverso dal nostro, che è sempre la voce altrui. Persino il silenzio avrà un ruolo, forse il ruolo più importante, perché assenza del parlato, inseparabile armonia degli opposti tra parola e silenzio. Diviene una pausa densa, ininterrotta e capace di risuonare nell’altro, momento di separazione, stasi e traslitterazione di una punteggiatura che detta il ritmo delle cose.
In ultima analisi, nel riscoprire la potenza della voce, il podcasting ci costringe a riflettere su chi siamo quando ascoltiamo, quando parliamo e quando diventiamo suono prodotto e percepito, talvolta anche incarnato. È un ritorno all’essenza delle cose, non per quello che produce ma per il gesto che esprime. Il parlare perde interesse su ciò che dice ma riflette su come ci fa sentire, come trasforma il nostro stare al mondo. Da consumatori bulimici di parole e di suoni, tentiamo di recuperare un rapporto autentico con la voce. Una voce che ci chiama ed annulla la distanza di spazio-tempo per ricondurci alla dimensione aurorale della parola pronunciata, detta, narrata e raccontata. In quest’ultimo senso la voce riacquista il suo statuto originario nella sua contraddizione di presenza-assenza come già ricordava Derrida. In questa tensione l’ascolto diventa un atto relazionale. Spetta a noi decidere se accoglierla, custodirla o lasciarla transitare.
[1] T. Bonini, M. Perrotta, Che cos’è un podcast, Carocci, Roma 2023, p. 7.
[2] G. Agamben, La voce umana, Quodlibet, Macerata 2023, p. 29.