di Sarah Dierna
Ci sono romanzi che non abbisognano di essere spiegati nel titolo perché ci ha già pensato l’autore a chiarire il senso di quelle parole scelte a mo’ di delucidazione del lavoro. Diceria dell’untore mi sembra uno di questi titoli ben riusciti di cui Gesualdo Bufalino ha cura di precisare il significato sin dall’epigrafe che, si sa, viene anteposta al corpo del testo per suggerirne la tonalità musicale e narrativa. In questo caso quasi una sorta di cautela e di modestia che riduce l’eco di certi racconti poiché falsati dalla diceria, dall’artificio, dal discorrere su un oggetto senza sottrarre niente ai fatti elaborati a toppe e per ricostruzioni non sempre corrispondenti a verità. L’untore, da sempre considerato un «dispensatore et fabbricatore delli onti pestiferi, sparsi per questa Città, ad estinzione del popolo…»[1].
L’untore di Bufalino è malato di una malattia più pestilenziale di quella che si cura alla Rocca, il sanatorio in cui il protagonista si trova a non vivere e a non morire; la malattia mortale dell’untore che resta davvero insanabile nonostante la prognosi positiva del Gran Magro che lo ha in cura è la vita stessa dalla quale, a differenza dei compagni, questo personaggio particolare non guarisce.
Tratto da una esperienza realmente vissuta da parte di Bufalino presso un sanatorio vicino Palermo, il romanzo ebbe una gestazione lenta e venne pubblicato soltanto nel 1981[2], tra l’ambizione, come riferisce a Leonardo Sciascia, e il timore di una sinistra avventura. Lo scrittore tornò a più riprese sul corpo del testo per affinare quel linguaggio, quella forma che costituisce l’aspetto veramente centrale dell’opera. I fatti contano, certo, ma in se stessi sono eventi miseri e inseriti in una cornice monotona di circostanze; ad irrigarli è la forma della parola che li racconta sublimando il buio che li avvolge nella luce della scrittura, la parola che salva e dona riscatto a un divenire che non ne possiede. Mi sembra si possa affermare qui una «concezione creativa dell’evento estetico, che non rimanesse prigioniera del dato ma lo trasfigurasse in forza dell’iniziativa poietica dell’Io»; si tratta insomma di «pensare la modernità come lo spazio di una volontà di creazione, posta in capo ad un soggetto autointerpretantesi quale pura activitas, lanciata verso un movimento progressivo, e potenzialmente infinito, di trasformazione del reale su base estetica»[3]. La parola dell’Io narrante fa esattamente questo. Essa è qualcosa di più di un surrogato della vita, come scrive la prefatrice Francesca Caputo, la quale vede nel linguaggio barocco non soltanto una cifra stilistica, un’emanazione esistenziale. La mia impressione è in parte diversa; suggestionata forse dal modo di intendere la baroccaggine di Carlo Emilio Gadda, mi sembra che ciò che nello scrittore della Brianza si presentava come il riflesso della baroccaggine del mondo, per lo scrittore siciliano si presta meglio a essere interpretato come una pura formalità. Il mondo di Bufalino arroccato su quella collinetta metaforicamente al confine tra la luce e la tenebra è veramente scarno, ossuto, misero e malato; la parola in qualche modo ridisegna questa realtà altrimenti difficile da far rapprendere. Poiché è proprio vero che «solo come fenomeno estetico l’esistenza e il mondo appaiono giustificati»[4].
Nel sanatorio la Rocca in cui si vive in attesa come in una sorta di purgatorio che culmina nella morte, l’io narrante spartisce il suo tempo insieme alla compagnia di Marta, del Gran Magro, dell’Allegro e del colonnello, di Padre Vittorio, del buio e del silenzio. Egli assiste durante la degenza alla scomparsa dei compagni; fa così conoscenza della morte degli altri senza mai giungere però alla propria. Qui la vita scorre tra il silenzio della notte che offre ai sonnambuli il presagio di una quiete più duratura e ininterrotta e il discorrere quieto o sincopato con dei convalescenti troppo delusi dalla vita. Più che l’incontro con Marta, la donna che riesce a dare ancora un ribollimento di sangue e una scossa sentimentale a una vita ormai in esilio, sono gli incontri e gli scambi con Padre Vittorio e con il giovane Sebastiano che conferiscono passaggi di grande impatto emotivo e teoretico alla narrazione.
Lo scambio amico, fraterno e soltanto in parte corrisposto con Padre Vittorio spoglia il senso più alto che l’umanità ha conferito al mondo per spiegare «il refuso immenso dell’universo» (51): la dimensione sacra dell’esistere. Non è soltanto l’io narrante a farsi poco persuaso della rassicurazione del divino, anche il fratello – fraternità che lui stesso, nonostante la distanza, riconosce – perde l’appiglio a una fede che salva e, senza la quale, infatti, la sua vita fluttua e naufraga tra molte domande e ben poche risposte. Mentre l’io narrante forse non è mai stato persuaso dal richiamo ad alcun messaggio di salvezza, la figura di Padre Vittorio è persino più dolente poiché è colui nel quale il dubbio metodico suscitato dall’amico durante le loro conversazioni diventa dubbio iperbolico il quale lo porta a «smarrire la direzione lieta del proprio cammino» (33) nel quale i sei giorni della creazione e il significato della domenica, l’insieme delle ricorrenze religiose che conferiscono un calendario liturgico dei momenti che accompagnano il cammino umano si riducono a una sequela di giorni tutti uguali, celebrazioni istituite «nella frode di voler prestare un senso d’elezione a una privata miseria del corpo» (32). Gli appunti lasciati da Padre Vittorio sui margini di una Filotea sono davvero bagnati di tutte le lacrime di uno strappo, di un abbandono, di una ferita profonda che ogni perdita lascia in coloro che hanno perduto.
Non è la disillusione del siciliano che parla, non è lo scetticismo dell’uomo di guerra che si pone la più sciocca e insieme la più plausibile delle domande per ritrovare infine una risposta «nella notte triste, imparo,/ So che l’inferno s’apre sulla terra/ Su misura di quanto/ L’uomo si sottrae, folle,/ Alla purezza della Tua passione»[5]. Padre Vittorio non viene meno e tenta di significare tutto secondo un disegno che si confà alla pienezza del divino ma è come se rimanesse sempre uno scarabocchio, una macchia nel foglio di carta che lo disturba, che la gomma non basta a cancellare e che insinua piuttosto il sospetto lugubre che quella Passione sia servita più a lui che a noi: «Un penoso sospetto sulla Passione», si legge in una delle annotazioni del parroco, «è venuto per salvarsi, prima ancora che per salvarci» (36).
Sebastiano, che alla fine tirerà un colpo sinistro all’esistenza separandosene d’improvviso, è una mente ancora affamata di vita, egli non è venuto a patti con la rabbia sopperendo a essa con una diffusa rassegnazione. Il ragazzo confessa all’io narrante la sua verginità, il suo candore per una vita che deve ancora fare le sue esperienze, quelle che la segneranno nel loro accadere ma che nel tempo diventeranno dei momenti iniziatici che determineranno la fine di un’età e l’inizio di un’altra.
E invece per Sebastiano la stagione intensa, attiva e affamata di vita si volge in una degradazione passiva nella quale ci si trova «spettatori inetti di noi stessi, senza aver la forza di opporre altro che bende di vanità all’aggressione dell’idea della fine» (78). Il dialogo con questo compagno, contrariamente agli altri che sono contrassegnati da una solenne pacatezza, è un crescendo di tensione e di rabbia che contrae le viscere e annebbia persino la mente, e non perché quella di Sebastiano sia ancora l’età dell’immaginazione e degli impulsi: più semplicemente perché la sua è ancora l’età della vita che fiorisce ma che non riceve l’acqua necessaria per crescere e si vede prosciugare, spegnersi e appassire così come si prosciuga, si spegne e appassisce quella degli amici più grandi per i quali l’esistenza godibile sarà ormai forse solo un ricordo, ma un ricordo reale e non inventato dalla memoria. Il ragazzo riferisce al protagonista di desiderare una donna sana e non malata. Anche questo particolare è evocativo di una vita giovane che fa dell’amore l’esperienza più tenera – ma anche più dolorosa – poiché è aperta verso ciò che ha da essere e che è lì, in attesa di essere conquistato; non un amore maturo dunque, come quello che gli anni e l’abitudine trasformano nell’esperienza del sostegno reciproco, dell’aiuto e dell’attesa condivisa del tempo della fine.
Anche il grande stereotipo dell’amore è presente ma credo si possa attribuire qui una connotazione particolare da pensarsi rispetto al corrispettivo che la tradizione psicanalitica e letteraria gli hanno affibbiato: la morte. L’amore per Marta è un sentimento ambiguo al quale corrisponde «per traslato, un no alla morte che io gridavo attraverso quelle indiscipline focose; tutta una suprema farmacia cercavo nella chimica dei sentimenti» (104). In modo ancora più sottile, acuto e trasposto l’amore per Marta è quasi una scuola di morte al quale si accompagna uno dei canti più disillusi tra le liriche di Giacomo Leopardi: «La gentilezza del morir comprende./ Tanto alla morte inclina/ D’amor la disciplina» (vv. 73-75)[6]. Il sentimento amoroso persegue con fare diverso lo stesso quietivo che a ogni esistenza è concesso per riempire il tempo della vita. Infatti, «nasce dall’uno il bene,/ Nasce il piacer maggiore/ Che per lo mar dell’essere si trova;/ L’altra ogni gran dolore,/ Ogni gran male annulla» (vv. 5-9)[7]. L’opposizione è dunque apparente poiché entrambi concorrono a lenire l’esistenza dalla disperazione nella quale altrimenti si cadrebbe. E infatti non avendo l’amore, Sebastiano ricerca l’altro estremo, la morte, per il suo potere guaritore. Per la grande salute che restituisce alla malattia mortale.
I malati del sanatorio attendono la morte imbastendola con la vita. E poiché vivere in quel contesto non accresce il bagaglio esperienziale che si narra, si condivide e si ripropone ai compagni di ventura, è il ricordo a essere chiamato in causa, di cui l’oblio segna l’altra forma del morire. A volte l’oblio è il gesto generoso del tempo che dimentica per fare spazio al nuovo; altre volte, specialmente quando si tratta di un ricordo traumatico e doloroso, e quello della guerra certamente lo è stato, è invece un meccanismo di protezione di cui ci serviamo per vivere ancora. Il conflitto come accadere storico diventa per Bufalino soltanto una forma esterna del conflitto interiore che è il vero «campo di battaglia dove si consuma la lotta contro la “durezza inammissibile del mondo esterno” […] su cui i ricordi si incidono e dolgono finché l’oblio non li erode e la memoria si sedimenta. È l’oblio attraverso il corpo che consente la messa in scena di nuove memorie, è nel corpo che accade il metabolismo dei ricordi ed è qui che si riapre lo spazio del desiderio e il tempo della vita»[8]. Nei pomeriggi spesi in città, il protagonista si accorge che non in tutto ciò che racconta Marta c’è del vero. Molte storie sono ricostruite, di esse alcuni particolari sono esaltati mentre altri del tutto omessi per ridisegnare una narrazione che sia aderente al proprio desiderio. Si tratta di un meccanismo del tutto fisiologico, di un’esigenza che appartiene a tutte le forme di esistenza, dalle più vuote alle più complete. La finzione e l’allegoria divengono due strumenti che si pongono l’impresa dell’affabulazione retorica dell’esistenza che però non sempre riesce a farsi persuasa, soprattutto quando gli anni si aggiungono e del gioco di sopravvivenza dell’esistere si sono imparate le regole. Mi sembra che la poesia matura di Vittorio Sereni sia riuscita a cogliere questa legge fisiologica e quasi istintuale della vita della quale alla fine non resta che constatare la natura apocrifa e dolorosa: «Come ogni storia, anche ogni memoria è apocrifa, e dolorosa. Non perché ricostruisce strazianti passati, ma perché genera nell’immaginazione futuri colmi di gioia e poi li allontana, li ritarda, li confonde nell’intrecciarsi di falsi segnali, di incerti intravedimenti e miraggi»[9].
«La memoria:/ non si sfama mai»[10] e ricrea nuove storie con nuovi finali che eludono il negativo per attingere soltanto dal positivo la linfa necessaria a che la narrazione possa continuare. E tuttavia è ciò che ci è dato per sopportare il peso di una vita che poco o niente di buono ha in serbo per noi: «Fabbrica desideri la memoria, poi è lasciata sola a dissanguarsi/ su questi specchi multipli. /[…]/ Amalo dunque – da cosa a cosa/ è la risposta, da specchiato a specchiante – /amalo dunque il mio rammemorare/ per quanto qui attorno s’impenna sfavilla si sfa:/ è tutto il possibile, è il mare»[11]. È un ausilio che consente alla vita di navigare sulle sue acque senza lasciarsi risucchiare dai vortici del fondale.
L’altro grande ausilio per la vita è il sonno che si offre come un’anticipazione del non-essere eterno. Con elevato lirismo, Bufalino ritrova nel letto le «materne mucose delle lenzuola» (7), la sensazione di «cuna d’una illesa natività» (134) nella quale si sperimenta per un breve assaggio il silenzio ristoratore del niente dal quale però bisogna risvegliarsi. Anche se non è annoverato tra le sue letture, ancora una volta sembra Leopardi l’eco di questo richiamo della vita dalle lagune lunari del non-essere: «Finché la babilonia della luce non fosse tornata a proclamare sui tetti, per chi se ne stava dimenticando, che un altro giorno ci aspettava dietro l’angolo, con la sua razione infallibile di dileggio e di pena. E sarebbe stato un giorno di meno, uno dei pochi rimasti» (19). Ma a quei pochi che rimangono il gallo silvestre richiama ancora al risveglio, benché al sanatorio tale tempo scorra lento, monotono e passivo. Nell’attesa.
Una delle attività alla quale partecipano i degenti è il teatro, l’opera d’arte apollinea che trasfigura il disagio esistenziale stemperando l’animo degli spettatori. Per Bufalino si tratta però di un teatro dentro il teatro poiché essi stessi, in quanto spettatori appunto, erano i veri attori di una vita che attendeva di essere agìta e giocata. Si rimane come seduti fino alla fine di uno spettacolo poco gradito senza la forza di cambiare il copione già scritto poiché «non serve mai, solo al fine di consolarsene, nobilitare un destino che ci è giocoforza patire» e «ogni differimento, del resto, serviva a rendere sempre più cavillosa e tenera l’intimità con la prossima fine» (9). Differimento non si dà in questo recitativo dove ogni storia è già stata. È. Si ripeterà ancora.
Al sanatorio si impara presto a vivere o, per meglio dire, a vivere senza più niente aspettare se non la fine di qualsiasi attesa. Gran Magro ha però una buona novella per il protagonista che, a differenza dei suoi compagni, si trova la morte accanto ma non ancora così vicino da incontrarla. Egli sta bene e può dunque essere dimesso. Tornare alla vita quotidiana, quella che durante un breve passaggio a casa gli aveva smosso sensazioni inquiete, di disagio e di non appartenenza. Adesso deve tornare a fare il suo ingresso nel mondo. Prepararsi al grande ritorno. Il protagonista non sembra accogliere lietamente la notizia di una nuova salute, il dono di una vita che gli giunge quasi come un contrappasso spettatogli per qualche peccato. La città che in presenza di Marta gli era parsa un posto difficile dove l’unica bontà scorta era l’indifferenza dell’occhio altrui, l’unica prospettiva di riuscita la possibilità di passare inosservati.
La notizia di ri-essere gli suona poco allettante: «poiché non c’è gesto o scongiuro che non deluda, e quel tanto che riesce a ripetersi sotto le palpebre, nell’atto stesso che illumina, acceca. Alla fine mi lascia solo parole. […] Appoggiandomi con i due gomiti sull’inferriata del mio sequestro, spenzolandomi a guardare giù in basso il brulichio, l’argento vivo, la ringhiosa e innamorante canea della vita. Allegrie, fasti, gonfaloni, lacrime, infamie, e le impunità insperate, le pene spropositate, tutte le guerre e i processi di dolore contro dolore…» (83). L’io narrante chiamato ad assumere un ruolo da protagonista si mostra scontento della notizia, sente quasi la colpa rispetto agli amici perduti durante la degenza, la fatica di tornare a vivere con tutto il peso che la vita comporta soprattutto quando la stagione estiva ha ormai toccato l’equinozio e inizia l’autunno: la stagione di passaggio che prepara alla maturità finale.
La vera svolta che contribuisce allo splendore di questo romanzo consiste proprio nella sensibilità di Bufalino di scorgere nella vita la vera malattia dalla quale non si guarisce. Risuona veramente potente lo stato d’animo di felicità espresso nell’infelicità di una condizione misera e senza luce: «Oh sì, furono giorni infelici, i più felici della mia vita» (17). Imbastiti da una dimensione quasi onirica del tutto a parte rispetto al prosieguo dei giorni che invece accade lontano dalla Rocca. Sospeso tra il niente di prima e il niente del ritorno e sempre più vicini a una promessa di pace, «sulle soglie dell’improrogabile epilogo, il mio spirito dubitava, in altalena fra delusione e speranza, senza che mai cessasse di considerare, nel medesimo tempo, la guarigione una caduta e la morte uno scandalo» (144). Un’affermazione tagliente che mostra il disincanto del pensatore siciliano e insieme una finezza intellettiva che lo stile può solo rendere ancora più splendida nella forma. Credo si possa fare valere per Bufalino ciò che Enrico Palma ha riconosciuto a Marcel Proust, scrittore peraltro presente al pensatore siciliano, e cioè che nel consegnarsi a un certo lirismo barocco l’autore sembra quasi avere compreso che «il modo migliore, e forse l’unico necessario, per abbracciare la morte […] è riformulare il senso proprio dell’essere-alla-morte come essere-per-la-scrittura»[12]. Una scrittura meditata e riformulata in modo pedissequo. Una narrazione che conserva il disincanto della Sicilia e i tratti di quella peculiarità nostrana e insieme universale che porta il nome di sicilitudine. Bufalino lavora sui grandi nodi esistenziali di ogni vita, li scioglie in qualche modo, pur lasciandoli annodati.
Alla fine, l’io narrante si ricongiunge con l’autore, e l’autore con l’umano contagiato dello stesso malanno, il quale riscatta la propria sopravvivenza con la testimonianza comunicata, trasmessa e custodita a memoria delle generazioni future lasciate per questo nell’utero cosmico del niente; testimonianza utilizzata da ultimo come pegno da pagare al barcaiolo, durante l’ultimo viaggio in mare per ritornare finalmente nell’Itaca originaria. Nella pace.
[1] G. Bufalino, Diceria dell’untore, prefazione di F. Caputo, Bompiani, Milano 2016, p. 3. Il numero di pagina delle citazioni successive sarà indicato direttamente nel testo.
[2] La risposta di Bufalino alla domanda di Sciascia «E il libro: da quale esperienza è nato, per quale necessita?» fu: «L’ho pensato e abbozzato verso il ’50, l’ho scritto nel ’71. Da allora, una revisione ininterrotta: fino alle bozze di stampa. Mi è venuto dall’esperienza di malato in un sanatorio palermitano: negli anni del dopoguerra, quando la tubercolosi uccideva e segnava ancora come nell’Ottocento. Il sentimento della morte, la svalutazione della vita e della storia, la guarigione sentita come colpa e diserzione, il sanatorio come luogo di salvaguardia e d’incantesimo […]. Mi importava esorcizzare quell’esperienza; ma soprattutto mi urgeva coagulare eventi e persone intorno a un centro di parole che avevo dentro», Intervista di Leonardo Sciascia, ivi, pp. XVIII-XIX.
[3] A. Sichera, Ermeneutiche. Punti di vista sul confine, Euno Edizioni, Leonforte 2019, pp. 11-12.
[4] F. Nietzsche, La nascita della tragedia dallo spirito della musica (Die Geburt der Tragödie aus dem Geiste der Musik, 1872), nota introduttiva di G. Colli,versione di S. Giametta, Adelphi, Milano 2011, § 24, p. 159.
[5] G. Ungaretti, Mio fiume anche tu, in Id., Il dolore, in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano 2016, p. 269.
[6] G. Leopardi, Amore e morte, in Id., Canti, a cura di G. Ficara, Mondadori, Milano 2016, p. 157.
[7] Ivi, p. 154.
[8] D. Baglieri, Una memoria pre-biografica? Ricordo e oblio come esperienze somatiche, in «Filosofia Morale/Moral Philosophy», n.5, 2024/1, p. 113.
[9] D. Scaramella, Postfazione. Perdimi tu, stella variabile, in V. Sereni, Stella variabile, prefazione di F. Fortini, Il Saggiatore, Milano 2017, p. 128.
[10] V. Sereni, La malattia dell’olmo, ivi, p. 98.
[11] Id., Un posto di vacanza, ivi, p. 68.
[12] E. Palma, De Scriptura. Dolore e salvezza in Proust, Mimesis, Milano-Udine 2024, p. 143.