di Luca Dilillo
“Tönt dieses Wort dich nicht an wie die mitternächtige Ruf eines Totenvogels? Hüte dich es zu sagen, sonst verblassen die Bilder des Lebens zu schatten, Spukhafte träume steigen aus dem Herzen und nähren sich von deinem Blut”.
“I am an appetite. Nothing more”.
“Mi ricordai del grande siciliano che, un giorno, stanco di contare le ore, fidandosi dell’anima del mondo e pieno di ardimentoso desiderio di vita, si precipitò nelle splendide fiamme…”
Chi è Nosferatu? Che cos’è?
Non un nome proprio: dubbia l’etimologia, probabilmente rumena… Nesuferit, l’Odioso… o forse greca, da νοσοφόρος, portatore di malattia… magari è soltanto Non-spirato, il Non-morto, oppure ancora colui che più non respira. Potremmo limitarci a suscitarlo, oscuramente, con le parole della pellicola del ‘22: “l’urlo di mezzanotte di un uccello di morte, un incubo che sorge dal cuore e si nutre di sangue”. Il Vampiro della stirpe di Belial, araldo della Morte Nera, l’orrenda pestilenza che impregna la terra infetta in cui si rivolta inquieto. Se-ducente e respingente, ibrida mostruosità, ombra e bestia, morto eppure vivo, sciamanico evocatore dei terrori più neri e profondi: che cos’è? Cosa ci rivela di nascosto? Se ho scelto di trattare questa specifica ‘maschera’ del vampiro non è solo, ovviamente, questione di gusto personale; ritengo infatti che dal Nosferatu cinematografico promanino dense e misteriose qualità: lontanissimo dalla mera trasposizione del Dracula letterario, ne rappresenta piuttosto una reinterpretazione, per certi versi una riscrittura radicale; partorito non dalla fantasia gotica tardo-vittoriana, ma dalle inquietudini germaniche contemporanee, figlio della Grande Guerra e dell’Espressionismo tedesco[1], Nosferatu rappresenta un soggetto non solo semplicemente interessante, ma capace di guardare agli enigmi di Uomo e Natura. Sì, perché Nosferatu ci parla dei poli dell’Essere, di ciò che è sovrastante e di ciò che è sprofondato, dell’oltre e dell’intimo. Potrà sembrare esagerato: in fondo non è altro che un film dell’orrore, per quanto grande; ma l’horror, di cui Nosferatu è uno dei massimi capolavori, non è una bazzecola: penso anzi che si tratti del genere contemporaneo in assoluto più vicino allo spirito del folk-tale e della tragedia. Generi arcaici, come arcaico è il cinema dell’orrore che, ricreando l’atmosfera del tragico e del fiabesco, ci riporta a ciò che è remoto, atroce e selvaggio. Qui i demoni ‘naturali’ che la tarda modernità ha interiorizzato e psicologizzato tornano a proiettarsi all’esterno, assumendo la forma di mostri terrificanti. Orchi e lupi, serpi e perfide streghe: creature estranee e però familiari. Ho accostato fiaba e tragedia in quanto universi solo all’apparenza diversissimi: tralasciando la tragedia come forma della grecità, il cui profondo significato non è interamente riproponibile al giorno d’oggi, il tragico nella sua essenza di genere del terrore e del dolore condivide molto con la tanto bistrattata fiaba popolare, le cui origini sono quasi altrettanto oscure e dolorose[2]. Per esempio, l’idea del sacrificio necessario. Il passaggio fatale attraverso la penosa dissoluzione, lo scacco da patire. Seppure nelle versioni finali delle fiabe il triste epilogo sia spesso sostituito o completato da un recupero positivo che termina felicemente la vicenda – lieto fine talvolta palesemente posticcio, che comunque cela un suo significato archetipico – il momento tragico è sempre ben presente, costituendo una possibilità di conclusione “negativa” del racconto: i bambini irretiti da pifferaio di Hamelin non torneranno più indietro; la nonna di Cappuccetto Rosso è sbranata dal lupo, che poi inviterà la giovinetta a giacere con lui[3]; Biancaneve e la Bella Addormentata corrono incontro a un destino di sopore fin troppo simile alla morte. Insomma, perdita dolore fallimento sono snodi decisivi dei folk-tales, molti dei quali prendono la forma con cui li conosciamo proprio in età moderna; ed è la modernità, con le sue contraddizioni e i suoi tormenti, con la scissione violenta tra Cielo e Terra, Natura e Spirito, il tempo storico demiurgo di orrori a noi ben familiari. Il Vampiro non è dunque semplice creatura del folclore, ma Portatore di Peste Guerra Distruzione; messo di apocalissi umane; specchio fin troppo lucido di un Male concreto e vorace, mortale e totale; proiezione delle inquietudini di un’umanità abbandonata a sé stessa, privata di numi redentori cui volgersi. Queste riflessioni si baseranno sul Nosferatu di Murnau, del 1922, figlio diretto dei turbamenti romantici, della modernità e della crisi europea del Novecento; e sull’ultimo rifacimento di quest’opera fondamentale, il recentissimo Nosferatu di Robert Eggers, del 2024, che a mio parere costituisce il perfetto approfondimento del tema originale. In questa sede non mi interessa l’analisi delle due pellicole, quanto piuttosto provare a riconoscere il tratto della nostra angosciata modernità, la dialettica di Naturale e Umano, affiorante attraverso la grana di due pellicole separate da un secolo ma unite da più della semplice vicenda narrata.
Qual è il tema fondamentale del film di Murnau? Rispondere in via definitiva a questa domanda è forse presuntuoso, ma io credo senza ombra di dubbio che si tratti della Natura. L’opera del ‘22 risulta piuttosto atipica nel contesto dell’Espressionismo cinematografico tedesco, solitamente incardinato su spazi chiusi, claustrofobici e volutamente fittizi, a rappresentare l’oppressione di un io delirante e allucinato[4]: Nosferatu invece respira la vastità degli spazi aperti, anche e soprattutto degli spazi naturali. Restano particolarmente impresse le numerose inquadrature e le panoramiche della natura selvaggia in cui Thomas Hutter, protagonista maschile, si immerge per giungere alla dimora del conte Orlok: foreste, sentieri accidentati, il profilo frastagliato dei Carpazi, le vallate montane, lo stesso castello arroccato, quasi incorporato dalla natura circostante, emergente dai boschi[5]; più avanti avremo le riprese del fiume su cui naviga la chiatta che trasporta le casse di terra del conte, avvolto dal paesaggio silvestre; e le scene sul mare, la grande distesa delle acque solcata dalla nave che porta il male a Wisborg, l’immaginaria cittadina tedesca teatro della vicenda. Ma ciò che più lascia interdetti sono tre sequenze a prima vista scollegate dalla trama: un licaone[6] che scorrazza fuori dalla locanda dove Hutter sosta per la notte, terrorizzando una mandria di cavalli; il professor Bulwer, definito un “paracelsiano”, che mostra ai suoi studenti una pianta carnivora all’atto di intrappolare una povera mosca; lo stesso Bulwer, che poco più avanti mostra agli studenti un polipo, paragonandolo a uno spettro. Se a tutto questo aggiungiamo il ruolo centrale dei topi infetti nella parte conclusiva del film, ci rendiamo conto di quanto le forze naturali, viventi e non viventi, siano preponderanti nella costruzione narrativa del regista Murnau e dello sceneggiatore Henrik Galeen. All’inizio della pellicola proprio il professor Bulwer, uomo così interessato ai segreti della natura, si imbatte in Hutter invitandolo a non avere fretta, perché “nessuno sfugge al proprio destino”. Il paracelsiano, filosofo naturale, che per il resto ha nella storia un ruolo assolutamente marginale, imposta la linea interpretativa dell’intera vicenda intorno al tema del Destino, che è poi solo un altro modo di dire Natura: quella ‘cosa’ tanto ingombrante e divenuta talmente incomprensibile agli occhi dei moderni da assumere sempre più le fattezze dell’incubo, dell’allarmante, del non familiare. Ne sono prova le ripetute immagini che della Natura ci offre la pellicola: bestie selvagge e inconsuete, famelici ragni, topi brulicanti, oscure foreste, rocce accidentate, nuvolacce, mare in tempesta. La Natura è specchio di un’umanità in crisi, incapace ormai di comprendere l’Altro-da-sé e con esso convivere in armonia. Una frattura si è consumata con l’Esterno. Una delle principali direttrici della modernità corre in effetti proprio sulla scissione tra Uomo e Natura: tutto ciò che è ordine, equilibrio, determinazione di forme, amore, intelligenza, spirito, bellezza, anima, tutto ciò che si può dire Vita finisce per essere rinchiuso nei confini dell’umano, creatura cogitante illuminata dalla ragione formatrice. Cosa resta alla Natura? Diventare materiale inerte, meccanismo, pura risorsa alla mercé del dominio antropico; caricarsi di tutto il negativo, del male che l’uomo rifiuta di accogliere come parte di sé, luogo dell’Ostile, principio di distruzione e violenza; ma c’è un’altra possibilità: intendere la Natura come ideale, luogo del Perduto, spazio di un’unità ormai svanita. È una tensione che ben conoscono i romantici, ma che viene tematizzata soprattutto dal pensiero idealista e che sta al cuore dell’opera di uno dei più grandi poeti della tradizione occidentale, forse il poeta della modernità per eccellenza: Friedrich Hölderlin. Esiste un legame, per quanto all’apparenza molto sottile, tra la riflessione poetica e filosofica del grande tedesco e la materializzazione contemporanea del Nosferatu; un filo sospeso tra smanie e tensioni di quel complesso grumo di pensiero spesso semplicisticamente definito Romanticismo, che è pensiero di una crisi già in atto, lo sforzo titanico di pensare un mondo spezzato e fatalmente ferito. Quando parliamo del distacco tra Spirito e Natura in fondo parliamo di noi, figli delle Esperidi torturati dall’incomprensione, gente del tramonto, attanagliati da orridi demoni di idee perdute e sfasciate come l’unità e l’armonia. Cos’è ormai, per noi, qualcosa come l’armonia? Non siamo più in grado di sentire la musica delle sfere, il lento e ieratico accordarsi di ogni parte con l’altra e di ognuna con il tutto. Cosa può mai essere l’unità? Soltanto ci restano frammenti, rimpianti, paure, oscure visioni. Chi più del grande poeta Hölderlin visse in carne e versi il sentimento moderno della lacerazione cosmica ed esistenziale? Da questo squarcio fatale è sorto ogni mostro della nostra epoca, bestia diabolica, ombra e panico. L’Orrore ci è congeniale. Chi è Nosferatu se non questa stessa Natura, fine e principio di tutto, da noi aliena e alienata, fattasi estranea al punto da svelarsi Mostro: malignità apportatrice di peste e sofferenza, famelica e distruttrice? Ci guardiamo intorno e cosa vediamo? Lupi voraci, creature in perpetua lotta, tormento e dolore infiniti; finanche le piante sono carnivore, sangue e vita costantemente succhiati via, tentacoli striscianti strozzano ogni luce, sporche masse di topi brulicano. E al di sopra di questo sfacelo vediamo ergersi il Signore dei Ratti, il Non-morto che a noi conduce follia malattia corruzione trapasso. Abbiamo bandito la Vita dal seno della Natura, credendo in tal modo di poter gestire e sostenere la sua immane potenza; di poterla sfruttare a nostro vantaggio, grande e produttiva risorsa. Ma essa non tollera di venire defraudata e scacciata dal suo seno: si ribella. Nella visione hölderliniana l’antico mondo dei greci, sublimato, percepiva ancora l’unità dell’Essere in cui lo spirito riposava nel grembo del naturale, ricettacolo del vivente; in quell’epoca dorata la Natura poteva ancora esser chiamata Madre, dimora degli dei, luogo di splendore divino, benevolo consesso delle potenze che adesso sono fuggite, lasciandola spoglia ed esanime. L’uomo ha preso signoria sull’esistente, spremendo e prosciugando il giardino ripudiato, avvizzito. Egli si proclama Signore della Materia. Signore di un pugno di mosche. Dio del Nulla. Se solo lo Spirito, strappato dalla matrice, è bene luce progresso civiltà vita, ogni altra cosa è ridotta a materia utilizzabile, destinata al giogo. Indelebilmente Altro, estraneo all’umano è il luogo dell’Ostile. Nemico. Perfino chi sente lo struggente desiderio del ricongiungimento non può non riconoscere cosa la Natura sia diventata agli occhi dei moderni: terreno scompaginato, lasciato a marcire; luogo avariato, violentato, bestia ferita messa all’angolo e divenuta violenta. Non più empireo, ma inferno, malevolo consesso dei demoni. Resta tuttavia, seppur negletto, il legame essenziale tra Spirito e Natura, tra dentro e fuori: laddove l’Anima pervertendosi cade sotto il dominio di un’ipertrofica volontà dominatrice, la Natura, suo specchio, si grava di questa perversione, di questa brama devastatrice, che in fondo già le appartenevano; tutti gli atavici orrori, tutta l’oscurità della Natura e dello Spirito, un tempo uniti e per ciò stesso esorcizzati, si trovano adesso a prender forma in un esilio, estraniati, nemici, mostruosi, inaccettabili. Nella sinfonia dell’orrore messa in scena con virtuosa essenzialità dal Nosferatu di Murnau noi assistiamo alla concrezione di questo motivo, allo sforzo della tarda modernità di rendere fiaba tragica e folclorica l’alienazione reciproca tra Uomo e Natura, il ripresentarsi del principio naturale, distorto e torturato, sotto la specie del mostruoso vampiro che sconvolge la tranquilla civiltà borghese con i terrori della pestilenza e del caos. La Morte, che è Natura deprivata di spirito e dei, viene a tormentare gli uomini, a chiedere loro il conto, a reclamare la forza mai doma del destino: quel destino a cui, come dice Bulwer, non è possibile sfuggire; quel destino che è la nostra natura, Natura in noi, spaventosa e inaccettabile; quel destino che è Natura dal volto di Sfinge, dagli occhi di Gorgone, impassibile, inevitabile, invincibile. Il vampiro verrà sconfitto, ma solo a prezzo del volontario sacrificio dell’innocente: la bestia stuprata e rovinata vuole e non può non volere il sangue dell’agnello, senza il quale gli è impossibile saziarsi. Solo sopprimendo la purezza è tenuto a bada quel Male che noi stessi creiamo, che noi stessi siamo. Che non sappiamo accettare.
Il nuovo Nosferatu di Robert Eggers ha la straordinaria capacità di approfondire e forse addirittura chiarire questioni aperte più di cento anni fa, restando fedele all’atmosfera, all’epoca, all’immagine dell’originale; cogliendo in pieno la profonda natura del racconto horror, tragedia e folk-tale, genere per eccellenza della modernità. La storia rimane la stessa, spoglia ed essenziale ma proprio perciò estremamente d’impatto: la leggenda vecchia e nuova di un Male che, penetrando la sonnolenta civiltà borghese, la scuote e la richiama al Principio e alla Fine. Vita e Morte. L’aggiunta principale – e decisiva – concerne il rapporto tra Vampiro e Fanciulla: Ellen e il conte Orlok sono legati da tempo, da ancor prima che la vicenda prenda inizio; anzi, è stata lei a risvegliarlo, a stringere un patto vincolante con la Bestia che giunge infine a reclamare ciò che è suo. Ellen appare fin da subito dominata da un fortissimo e inspiegabile desiderio di morte, un cupio dissolvi che la rende dissimile da chiunque: incompresa, respinta, repressa dal principio maschile che più facilmente si integra nelle aride istituzioni borghesi. Melanconica, malata di nervi, isterica: sogna di sposare la Morte e danzare con essa in una cappella piena di maleodoranti, nauseabondi, putrescenti cadaveri; e nonostante tutto è felice. Non è mai stata così felice. Il marito, in cerca di posizione e profitto, la esorta a nascondere tali fantasie, scandalosamente fuori luogo nell’onesta società. Solo il professor von Franz, alchimista e studioso di occulto a sua volta ostracizzato dai colleghi scienziati ‘di buon senso’, ne comprende le segrete qualità, la segreta grandezza: una meravigliosa sacerdotessa di Iside sarebbe stata, in un lontano passato… Ma nella nostra bizzarra e contorta modernità il ruolo di Ellen sarà più decisivo: mettere fine al Male accogliendolo dentro di sé, nel senso più fisico e letterale possibile. La scena si apre con la Fanciulla che emerge dal buio invocando uno spirito protettore, un conforto nella solitudine: nel suo profondo lei sa, è già consapevole di cosa sta chiamando: la Morte. Ne sente fortissimo il desiderio; e la Morte, nella forma del Non Morto, viene a lei, risvegliata, richiamata dagli oscuri abissi dell’abiezione, da una fetida buca. Sta qui il paradosso del Vampiro, il grande gomitolo di Vita e Morte: egli è Nosferatu, il Cadavere Vivente, il massimo controsenso; la morte non è morta del tutto, ma rianimata dall’appetito più vitale e primordiale, la brama sessuale. C’è di più: il Non Morto, che di fatto non è altro se non carogna in disfacimento, corpo quasi scheletrico, nido di larve, freddo, livido e privo di fiato, dice di sé: “sono un Appetito. Null’altro”. Non si tratta allora di un mostro che appetisce, ma del Conatus in quanto tale. Ne è incarnazione. Pura insaziabile brama di sangue, caldo liquido della Vita. La passione di Ellen è legata a lui, indissolubilmente. È Natura-Morte che desidera la Vita e tuttavia non può averla se non consumandola, succhiando fino alla distruzione tutto ciò che batte e si muove intorno a lei. Fino a lasciare il Vuoto. La modernità conosce bene questo paradosso, a dire il vero: è la volontà di potenza, volontà di affermazione vitale che per sua stessa natura si rovescia nel suo opposto: volontà di distruzione, spinta alla Morte di Tutto. Ribaltamento che è poi disvelamento del sostanziale nichilismo serbato nell’affermazione, nella crescita, nella vitalità.
Non Estinto: nella figura del Nosferatu coesistono i due poli, opposti ed egualmente temibili agli occhi dell’uomo moderno, della Morte e della Vita. Nosferatu è un involucro vuoto, portatore di pestilenza e disfacimento. Ma è pure conatus essendi, che del vivere è segno più evidente. Famelica voracità, desiderio di sangue, aspirazione all’amore, spinta sessuale animalesca. In questa dialettica tra il Mostro e la Fanciulla è la Morte che vuole vivere o la Vita che vuole morire? Cosa significa il segno di Nosferatu? Morte spinta a fagocitare ogni cosa che alita e vive, tesa a far suo lo stesso respiro – forse per tornare a respirare? Volontà di annichilimento che è pur sempre volontà vitale, impulso alla negazione di sé? Oppure è la Vita, nella sua natura più bassa organica biologica incosciente, che aspira a divorare quindi a distruggere? La cieca vita che angosciosamente desidera eliminare la Morte, cancellare il Nulla, mangiare il Non Essere per conseguire il vivere perenne, ma così facendo raschia via ogni forma di vita e semina distruzione partorendo il vuoto che vorrebbe esorcizzare? Il nostro fato è solo distruzione? Non possiamo vivere senza uccidere la Vita, nostra e altrui? Questo è il dilemma mortale, devastante, di noi uomini moderni. In questo groviglio ancora una volta ci giunge in soccorso Hölderlin, che nel suo faticoso e irrisolto tentativo di realizzare una tragedia moderna, riflette con somma lucidità proprio sullo sconvolgente legame tra Vita e Morte. Nel Grund zum Empedokles il poeta tedesco parla del rapporto tra ciò che lui definisce aorgico e l’organico, non inteso come dimensione biologica, ma al contrario, nella sua derivazione dal concetto greco di ὄργανον, come ambito della strumentalità umana: organico è tutto ciò che ha a che fare con la vita dello spirito, nella modernità totalmente assorbita dall’uomo e dalle sue attività, tecniche, culturali, civili, politiche, artistiche. Organico è il principio di ogni forma e determinazione. Il principio vitale dell’amore e della creazione, che estremizzato può atrofizzarsi – come di fatto accade – nelle forme dell’esistenza borghese e burocratizzata. D’altra parte l’aorgico è la Natura nel suo essere principio illimitato, informe, indefinito, impossibile da esperire, presente solo in quanto assente. È solo facendosi da parte che l’aorgico può permettere la Vita in quanto definizione, formazione, comprensibilità. Solo facendosi da parte può, paradossalmente, manifestare sé stesso. Nel suo essere radicalmente estraneo ed estraniato dall’uomo e dal principio vitale, del tutto Altro e Inafferrabile, l’aorgico terrorizza: in questa veste di totale assenza esso si fa Morte, negazione di tutto ciò che è formato, di tutto ciò che crea e respira. È Morte che tutto sovrasta, è Destino incomprensibile, insopportabile. È ombra orrore deformità. Principio demonico. La trattazione intorno ad aorgico e organico serve a Hölderlin per dire cos’è la tragedia e al tempo stesso per definirne la compiuta attuale impossibilità. I greci – e gli antichi in generale – sentivano, pensavano, esistevano nell’Unità. Noi esperiamo soltanto Scisma. Come può il tragico, che è παρουσία dell’Illimitato-Morte nel Limite-Vita – principi che per noi sono definitivamente contrari, alieni l’un l’altro – darsi ai moderni? Farsi concepibile? Impossibile: la possibilità stessa di questo farsi-presente implica un venir meno. Così come l’aorgico è negato, annichilito dal suo entrare nella Vita, allo stesso modo l’organico svanisce nel suo ricondursi al principio di sé, la Morte Natura Destino. È questo il nodo della morte tragica: l’eroe si nega, desidera la sua fine per tornare al Tutto, quel Tutto che egli già da sempre è. Al contempo l’assoluto demonico aorgico non può che aspirare alla forma, alla manifestazione, che però significa la sua fine. La dialettica hölderliniana tra aorgico e organico è specchio dell’insanabile contrasto tra Vita e Morte, unite dal Desiderio. L’un polo vuole farsi l’altro, dissolvendosi nel trapassare, in un’estasi erotica e dolorosa del congiungimento che dura un solo istante: quel sacro attimo dove l’aorgico si fa organico e l’organico aorgico. Solo un istante, poi svanire. Il Vampiro stesso è risultato del farsi forma organica dell’informe, dell’Inumano-Morte. Cifra del Nosferatu è il paradossale coesistere di Morte e Vita, Amore e Odio, Affermazione e Distruzione. Il Non Morto è il mostro-umano: il vivente-non-vivente che aspira alla vita, alla rappresentazione e così alla distruzione. Il Demone che non può amare e tuttavia non può non voler amare: richiamato dalla donna che sente il desiderio della Morte, oscura volontà di Vita al suo stato primordiale, come l’Empedocle di Hölderlin che per voglia di vivere si getta nel fuoco dell’Etna, estinguendosi. La Natura è sede autentica dell’aorgico, dell’illimitato bestiale demonico inumano, di quell’orrore proiettato all’interno, cacciato al di fuori, esule senza patria. Quell’orrore che è in noi. Fuori di noi. Al di sotto di noi.
Il Nosferatu si presenta come Cadavere per eccellenza[7] in quanto incarnazione della Natura ridotta per i moderni a materiale inerte. Ma alla Natura-Destino, pur manifestandosi come potenza di dissoluzione – che di fatto le appartiene – ripugna essere solo massa morta e putrescente. Cos’è che lo risveglia? Il richiamo della Vita, nella forma pura di una ragazza, solitaria e sensibile, stranamente attratta dalla fine. La Fanciulla scopre in sé il Nosferatu, quel principio naturale che reca Morte ma anche Desiderio, quella bestia incomprensibile, il monstrum che siamo e che al contempo ci sovrasta: Ellen lo domanda a von Franz, senza ottenere risposta: “il Male viene da noi o dall’Al di là”? Quella Bestia è il nostro stesso Destino, che ci appartiene e non ci appartiene. A cui ci sottraiamo ma che non possiamo evitare e da cui in fondo siamo oscuramente, fatalmente attratti. Lei, la Donna che è Vita allo stato puro, ribellione alle forme cristallizzate dell’esistenza borghese in favore degli istinti più temuti e incomprensibili, appetisce la Morte. Lui, Mostro che è Morte allo stato puro, putrida e disfatta carogna, latore della disperazione, colui il quale, come dice il folle Knock, è infinità che aspira a regnare su corpi vuoti, appetisce la Vita. Quell’amore per lui impossibile, feroce, letale pur essendo la massima fonte dell’esistere, è come se gli rendesse, infine, un po’ di quel respiro, di quello spirito che da secoli non abitava la vuota carcassa, forzata a inspirarlo da fuori, rabbiosamente, come un rantolo. Quel respiro che, in quanto No sferatu, Non-spirante, più non gli apparteneva, costituendo tuttavia l’oggetto del suo vorace, ineluttabile Appetito desiderante.
Così come crede Hölderlin, la finita individualità dell’essere umano, spezzata, frammentata, sofferente, perversa e malvagia, può essa sola realizzare l’unificazione con l’Infinito-Natura: ma lo può soltanto per un battito; facendosi da parte, esponendosi all’annientamento, per trarre da esso una bellezza unica, fragile, dolorosa e transeunte. Come Empedocle e ogni altro eroe tragico compiono il proprio destino nel trapassare, evocando il Bene e il Bello dal disfacimento, così la Morte e la Fanciulla, Hades e Afrodite, Νεῖκος e Φιλότης, trovano pace unità pienezza nel reciproco annientamento. Anche se per un solo battito.
Uno scheletro. Un giovane corpo nudo e insanguinato. Tutt’intorno, come corona, mazzi di fresco lillà.
Il Male si disperde solamente accogliendolo.
[1] Ultimo allucinato e sinistro bagliore dello spirito romantico teutonico.
[2] Per restare in terra tedesca – e forse non si tratta di un caso – basti pensare alla raccolta di fiabe dei fratelli Grimm, piuttosto cupe e violente, per quanto rimaneggiate rispetto alla tradizione orale.
[3] Particolare che stranamente sembra anticipare il finale dell’ultimo Nosferatu.
[4] Da questo punto di vista Das Cabinet des Dr. Caligari di Robert Wiene rappresenta il più compiuto – e forse l’unico – esempio di cinema espressionista tedesco.
[5] Le riprese esterne sono quelle del castello di Orava, in Slovacchia.
[6] Che probabilmente simboleggia il lupo mannaro di cui l’oste parla a Hutter.
[7] Il che è reso perfettamente dal film di Eggers, che riporta l’aspetto del Vampiro a quello del folclore originario: un corpo morto innaturalmente risvegliato.