di Sarah Dierna e Marcosebastiano Patanè
Sofocle
Elettra
Regia di Roberto Andò
Traduzione di Giorgio Ieranò
Teatro greco di Siracusa, 12.05.2025
Scene e disegno Luci di Gianni Carluccio
Costumi di Daniela Cernigliaro
Musiche di Giovanni Sollima
Nel sesto libro della Repubblica di Platone viene posto un interrogativo molto significativo: «ἧι οὖν ὑπάρχει διανοίᾳ μεγαλοπρέπεια καὶ θεωρία παντὸς μὲν χρόνου, πάσης δὲ οὐσίας, οἷόν τε οἴει τούτῳ μέγα τι δοκεῖν εἶναι τὸν ἀνθρώπινον βίον; ἀδύνατον, ἦ δ᾽ ὅς. E alla mente nella quale abita la magnifica possibilità di vedere tutto il tempo e tutto l’essere, quanto ritieni che possa sembrare grande l’esistenza dell’umano? Impossibile disse»[1]. Esistenza che è davvero poca cosa, o comunque qualcosa che non vale la pena, se si pensa che per la maggior parte del tempo essa è segnata dal dolore, dall’attesa e dalla disillusione; elementi questi che accompagnano la vicenda di Elettra così sapientemente raccontata da Sofocle. Poca cosa che il mondo greco riconosceva e cercava di accogliere e di vivere in modo consapevole e che sembra invece mancare nella rappresentazione che di tale opera ha voluto proporre il regista Roberto Andò al teatro greco di Siracusa, dove le passioni messe in scena sconvolgono a volte in modo quasi eccessivo la protagonista; un eccesso consumato – e stemperato – all’interno di una scenografia misurata e semplice, che del luogo rispetta per fortuna la sacralità e dei Greci la tonalità.
Quasi a voler riprendere il senso del sottotitolo nietzscheano della Nascita della tragedia, Elettra esordisce e accompagna al pianoforte il suo lamento iniziale; le lacrime scivolano sul ritmo sincopato della sua composizione e sulle sue notti di veglia, trascorse a piangere la scomparsa dell’amato padre, la lontananza del fratello e la presenza di una madre ‘perversa’.
Ad accogliere il suo pianto sono tre donne di Micene, mentre le restanti fanciulle del coro agiscono quasi come una eco empirica del dolore di Elettra, ripetendo le ultime parole dei suoi versi e simulando con i passi e i gesti le contrazioni d’animo della sorella di Oreste.
A respingerlo è invece Clitemnestra, che contravviene ai costumi della maternità alla quale siamo avvezzi e manifesta invece il disprezzo che una madre può provare nei confronti dei figli, la gioia che può nutrire quando il pericolo che essi rappresentano viene meno. Una madre che soffre non per il dolore o la mancanza dei suoi figli, bensì perché non può odiarli, in una affermazione che descrive davvero quanto intricato e nient’affatto semplice sia il legame parentale che unisce i genitori alla loro prole.
La generatività sta al centro di questa tragedia capace di mostrarne il groviglio di contraddizioni, di dolori e di violenza che non risparmia nessuno dei protagonisti della famiglia di Agamennone. Dalla figlia Ifigenia al padre Agamennone, dal marito alla moglie, dalla madre ai figli Oreste ed Elettra; nessuno è risparmiato al proprio destino di angoscia e di morte, nessuno viene salvato dal sentimentalismo di qualcun altro e alla fine sono sempre le passioni negative, quelle più forti, a vincere sulle altre positive. D’altronde Ares, come dice Elettra rispondendo alla sorella Crisotemi, non si trova soltanto nei luoghi di guerra che hanno poi determinato gli eventi della famiglia degli Atridi; il conflitto abita anche all’interno delle mura domestiche e familiari poiché esso è il vero padre di tutte le cose.
Tale dimensione conflittuale governa l’intera trama degli eventi mostrando la verità dei sentimenti, negare i quali si rivela non soltanto ipocrita, finto e, alla fine, privo di un effettivo risultato. Forse anche per dissimulare l’odio profondo e reciproco che madre e figlia serbano tra di loro, Elettra si mostra invece smisuratamente coinvolta dalla scomparsa del padre e dalla distanza del fratello; o forse, e ciò sarebbe altrettanto significativo, una maggiore compostezza sarebbe stata percepita in modo impreciso da un pubblico educato alla spettacolarizzazione dei sentimenti quale è quello contemporaneo.
La maternità, il ciclo della vendetta e la sofferenza sono dunque i tre ambiti fondamentali entro cui la vicenda dell’Elettra si svolge e il destino dei suoi personaggi si compie. I Greci hanno saputo nominare questi ambiti grazie alla loro capacità poetico-plasmatrice e alla natura del tutto peculiare della loro fede, grazie cioè al carattere conoscitivo delle figure degli dèi, figure che esprimono, che sono, aspetti del reale.
Clitemnestra ed Elettra invocano esplicitamente gli dèi sotto la cui tutela affidano la propria sorte. Clitemnestra, tormentata da sogni e visioni di sventura, soffre l’incertezza del proprio futuro e per questo invoca Apollo, il dio ambiguo, il dio doppio: ambiguo poiché la sua luce, che tutto rivela, proprio a causa dello splendore assoluto della sua potenza nasconde per le menti mortali la pienezza delle sue rivelazioni; doppio perché la sua luce si rivela una lama mortale, una freccia scagliata da un luogo inaccessibile. «In Apollo la massima chiarezza e l’annientante oscurità della morte, spinte agli estremi limiti, si equilibrano, anzi, nella profondità, esse s’incontrano in una perfetta identità»[2]. Non a caso, il messaggero inviato da Oreste per trarre in inganno la regina e il suo amante arriva proprio nel momento in cui vengono portati a termine gli onori tributati al dio Apollo ordinati da Clitemnestra.
Elettra invece si affida a Niobe, la figura che per eccellenza incarna il pathos di un dolore insostenibile. Sofocle rientra in quella tradizione che riconosce Niobe come una dea; egli lo fa dire esplicitamente a Elettra e per bocca del coro dell’Antigone ribadisce i natali divini e la natura divina dell’esule frigia figlia di Tantalo. Niobe esprime per la metà femminile del genere umano ciò che Prometeo rappresenta per la parte maschile, cioè una divinità, il titano Prometeo o la dea Niobe, che incarna l’essenza del genere umano portando il peso del suo destino e pagando il prezzo della sua colpa: «I Greci hanno riconosciuto in lei – Niobe – la madre primordiale dell’umanità, un aspetto del femminile umano: quel femminile che porta la sofferenza terrena come sofferenza di una madre, non però come doglie del parto, bensì come dolore dell’anima»[3]. È in questa sofferenza che Elettra si riconosce.
Infine il ciclo della vendetta. La potenza di Nemesi consiste anche nella moltiplicazione dello spirito della vendetta che nasce dall’offesa. La Nemesi non ha nulla di morale, di soggettivo o etico: «La νέμεσις sorge come una rappresaglia automatica che gli dèi o gli uomini mettono soltanto in movimento, del tutto involontariamente […] la persona adirata sente la Nemesi, ne diventa portatrice e l’aiuta nella sua azione»[4]. D’altra parte, spiega Kerényi, sarebbe errato svincolare la Nemesi dall’elemento femminile che la contraddistingue, poiché la dea primordiale moltiplica l’offesa trasmettendo il germe della vendetta alla prole. Elena, la donna fatale per eccellenza, e Clitemnestra, la donna assassina, la donna che trama inganni, sono figlie di Leda-Nemesi, dea-madre-primordiale[5]. È nel vanto sacrilego di Agamennone che uccide il cervo nel bosco sacro ad Artemide che Nemesi viene evocata e può esprimersi nel suo ordinamento: «Ciò che viene offeso, si vendica»[6].
Benché non sia stata pensata come tale, nella tragedia batte un cuore profondamente antinatalista. Non soltanto la morte della figlia Ifigenia segna l’incipit di un destino sciagurato per l’intera famiglia di Agamennone e per lo stesso re ma il disprezzo dei figli per i genitori e il desiderio di Oreste e della sorella di vendicare la morte del padre, di uccidere quindi la grande madre per potere sedere sulla sedia che fino a quel momento era stata della regina. Lo spirito di vendetta sopraffà qualsiasi legame non perché lo cancella, bensì perché se la vita è questo precipizio che alla fine fa affondare il «nulla nel nulla» allora bisogna potersi vendicare nei confronti del demone della nascita, che ci ha sottratto al destino migliore dandoci come debito, per potere ritornare al nulla, un destino avverso di dolore e di morte. Oreste riscatta la morte del padre e libera la sorella, è vero, ma il riscatto è più profondo e ha come salvezza l’apertura di un «varco di libertà», magnifica espressione su cui la tragedia parlata si chiude. La conquista è un affrancamento dal demone della nascita poiché la propria sorte è stata vendicata e i conti sono stati pareggiati. Libertà però non è inadempienza alle leggi, come velatamente suggerisce Oreste quando si rivolge a Egisto, ma è osservanza di esse. Accordo con le leggi imperscrutabili del cosmo.
La tragedia si chiude da dove è cominciata. Al pianoforte. Sotto il segno dello spirito della musica; una melodia diversa e più armonica però che alla fine induce al sonno della notte al quale Elettra è finalmente capace di abbandonarsi.
[1] Platone, Repubblica, VI, 486a.
[2] K. Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia (Einführung in das Wesen der Mythologie, 1942), trad. di A. Brelich, Bollati Boringhieri, Torino 2012, p. 156.
[3] Id., Miti e misteri (1950), trad. di A. Brelich, Bollati Boringhieri, Torino 2017, p. 222.
[4] Ivi, p. 44.
[5] Ivi, pp. 42-44.
[6] Ivi, p. 38.