La congiura degli ignoranti

Recensione a:

Davide Miccione

La congiura degli ignoranti. Note sulla distruzione della cultura

Valore Italiano Editore

Roma 2024

Pagine 166

€25,00

di Enrico Palma

Questo di Davide Miccione è certamente un libro che serve. Non di quelli asserviti allo status quo o al servizio dei potenti e potentati di turno. È anzi un tentativo questo potere di comprenderlo e di sabotarlo dall’interno, associando una finissima verve ironica e tranchant a una ancor più acuta capacità fenomenologica e descrittiva della realtà scolastica, universitaria, ma più in generale, direi, dell’intero stato di salute della società contemporanea, italiana ed europea. Quello tentato in questo libro mi sembra un avvincente, argomentato e difficilmente contestabile Bildungsroman, richiamando alla mente quei romanzi di formazione tanto in voga tra Otto e Novecento che, attraverso le peripezie e le traversie esistenziali più diverse, approdano a una concettualizzazione della maturità. E però non è naturalmente di paideia o di Bildung che qui si parla, ma di una formazione degenere che involve su di sé come un gorgo, il quale finisce per inghiottire se stesso in un vuoto di senso e di concetto. Miccione, infatti, sulla scia del suo libro precedente Lumpen Italia, descrive la vita media dell’ignorante ipermoderno, con uno sforzo di descrizione, come detto, invidiabile, lungo il corso esistenziale della sua non-formazione. Perché, potremmo chiederci, quando la scuola, l’università e la società non formano, non inseriscono i nuovi arrivati nel solco della cultura, della tradizione, della storia filosofica, artistica, letteraria, musicale, a che servono? A cosa possono ridursi? A delle agenzie ricreative per sgravare le famiglie dal peso economico e organizzativo di badare ai propri figli, magari con il caldo suggerimento di non spremerli troppo e non di farli faticare?

Nel tentativo di riflettere a partire dal suo Lumpen Italia,definivo lo sforzo di Miccione come una difesa strenua, quasi da trincea, della figura dell’intellettuale, imbevuto di una lingua forbita e lessicalmente ricca e di una tradizione culturale frutto della faticosa lentezza della meditazione, evidentissimo controcanto della vacua accelerazione con cui i contenuti (sempre che si possano definire tali) vengono consumati dopo appena qualche istante, che non è, naturalmente, il piolo dell’istante di cui parlava il Nietzsche avveduto anti-storicista, bensì la vertigine sprofondante e ipnotica dello switch di TikTok.

In ogni caso, a livello strutturale, o se vogliamo anche metafisico, la riflessione di Miccione mi sembra inseribile in un doppio canale di grandi dinamiche storico-epocali, in atto da diversi decenni e di cui due grandi pensatori si sono fatti eccellenti interpreti. E parlo del destino, che in modo ancipite è stato ridefinito da Heidegger nel senso tecnico del dispiegamento onto-storico del mondo contemporaneo e da Kafka nel senso burocratico. Lo stesso Walter Benjamin, nel suo geniale saggio del 1934 su Kafka a dieci anni dalla sua morte, aveva colto che il mondo dello scrittore praghese è quello delle soffitte buie e ricolme di scartoffie. E sempre Benjamin, sostando sul gesto in Kafka, potrebbe restituire lo spazio di manovra ancora consentito tra le tenaglie stritolanti di questo presente, di questa ignoranza che congiura e cospira contro di noi. È il gesto di Amalia, che nel Castello si ribella allo strapotere dei funzionari, stracciando la lettera/convocazione di Sortini, rifiutando così di asservirsi al sistema, di intravvedere un po’ di luce nella tenebra burocratica e nella pressurizzazione delle carte protocollo. La stessa burocrazia che imprigiona i docenti, mette loro il bavaglio, li acceca e li ottunde, in quella che ai miei occhi appare come niente di meno che la più sonante, e dunque la più drammatica, delle conseguenze vittoriose delle forze ormai legate a doppio filo di tecnica e burocrazia.

Laddove infatti è la forma del sistema a governare il sistema stesso, è del tutto naturale che sia il contenuto a farne le spese. In buona sostanza, lavoriamo il campo con i nostri (presunti) migliori strumenti senza badare alla qualità del raccolto. Oppure, per dirla con le parole della più parte dei presidi con cui mi è capitato di avere a che fare nella mia – breve – esperienza di docente, «più PNRR meno didattica».

Tutto questo, secondo Dario Generali, la cui premessa costituisce uno di quei rarissimi casi in cui il testo introducente rischia di superare il testo introdotto, ha due possibili epifenomeni nell’ignoranza della lingua italiana, chiaro segno del degrado costante della scuola, e nella burocratizzazione, spesso ai limiti della disperazione, mi spingo a dire persino della demenza, di dirigenti scolastici assimilabili a meri esecutori di compiti e impegnati, proferendola con la brutalità che il sistema merita, a tenere in piedi una baracca però barcollante e pericolante. Con le parole di Miccione: «La formazione, la scuola e l’università […] edificano attivamente le torri di fango dell’ignoranza ma subiscono anche l’ignoranza che la società italiana pompa, richiede, pretende» (p. 30). Questo a riprova del fatto che la scuola deve ergersi a baluardo contro la deriva barbarica che è destinale all’Occidente ma dinanzi alla quale non può arrendersi, perché, e questo per Miccione è chiarissimo, la posta in gioco è l’Occidente in quanto tale, con quanto ancora può dare per rispondere agli interrogativi di una vita sana, giusta, consapevole e quanto più possibile serena, descrivendo con ciò il modus vivendi degli intellettuali, degli uomini colti, che «il sistema economico, professionale, culturale, consumistico e mediatico ha reso superflui» (p. 33), e con dolo.

Una cultura del libro e della scrittura, in cui grossomodo consiste l’Occidente, che sta venendo soppiantata anche nella didattica, preferendo a essa appunti sotto dettatura, la terribile slidite (ovvero la dipendenza da PowerPoint e Canva), per non parlare dei podcast su YouTube perché, dice Miccione, l’Abbagnano è ormai troppo difficile. È allora per questa ragione che Miccione si schiera apertamente in difesa del testo scritto, e non per partigianeria derridiana ma per una convinzione, lo ripeto, storico-epocale, tale che «solo un corpo docente tutto orientato alla riconquista della lettura e del testo scritto, ognuno nel proprio ambito di pertinenza, potrebbe creare una pressione tale sugli studenti da poter cambiare qualcosa» (p. 53). Perché la scrittura è apertura di sé e schiusura del mondo, interpretazione dell’essente e chiarificazione dell’enigmatico. Anche nel rapporto dello studente con il testo scritto, specialmente se poetico, subentrano delle difficoltà insormontabili, per cui piuttosto che un avvicinamento caldo e nutriente in senso ermeneutico al logos letterario si preferisce l’operazione tecnica di smontaggio, in cui gli studenti possono essere anche bravi conoscitori dell’armamentario retorico ma incapaci di penetrare o di farsi coinvolgere dal cuore luminosodell’opera. Giacché questa tecnicizzazione della formazione investe anche il docente, tutto preso dal come insegnare piuttosto che dal cosa insegnare, nella profonda convinzione, al contrario, che siano i contenuti essi stessi i migliori veicoli didattici. Questo è ciò che Miccione definisce addestramento e non formazione. Ci si addestra a tutto, all’inglese, ai compiti in classe, ai test di accesso alle facoltà universitarie, persino ai concorsi per diventare insegnanti, per nulla diversi nella sostanza dai tele-quiz tanto in voga nel tardo pomeriggio nei vari immondezzai delle maggiori reti nazionali.

Che fare, dunque? Miccione, nella sua implacabile analisi, propone uno scenario, e lo fa con un semplice basterebbe. E cioè: ci vorrebbe solo questo, e le cose andrebbero subito meglio. Commentando una bella pagina di Generali, Miccione scrive: «Basterebbe ridare a questi professori spazio per fare, togliere loro mansioni inutili, non pensare a loro come impiegati da controllare. Basterebbe fare della scuola luogo di pensiero, discussione, ricerca e non l’ennesimo ramo di un capitalismo della vigilanza che si fa sempre più grottesco» (p. 93). Pare veramente una cosa da niente, ma un progetto simile è tutto quanto fa la differenza. Una differenza per la libertà.

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